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rono un aguato con trecento cavalieri e duemila pedoni al valico della Pieve al Toppo. Vi capitarono i Senesi e assaliti alla impensata furono agevolmente sbarattati; di che mal conci e pentiti rientrarono in Siena.

Arrogi lo smacco tentato sopra re Carlo secondo, e la bile si accumulava ognor più contro la fazione rivale.

Altri appresso furono i ripicchi e le puntaglie che l'uno e l'altro comune fece e sostenne, e finalmente Guglielmino vescovo d'Arezzo come savio uomo, quantunque per avventura più gli spiriti marziali che l'apostolica mansuetudine gli talentassero, considerando i mali che la guerra si trae dietro, tentò provvedere al bene della pace e insieme ai suoi propri interessi. Il perchè accontatosi colla Signoria di Firenze patteggiò segretamente, proponendo di cedere le castella del suo vescovato in pegno, a condizione però che gli si assicurasse una somma sulla compagnia de' Cerchi. Discordi trovaronsi a tal proposta i signori: chi amava la pace chi diceva senza una battaglia perentoria non potersi fermar pace fra i due popoli: alla perfine si convenne di accettare le castella. Ma il vescovo udito come gli Aretini avevano in conto di tradimento quanto per lui erasi ordinato, oppose fermo un niego a segnare il trattato in quella che i Fiorentini vi aderivano; e dacchè vedeva che i suoi ad ogni costo volevano la guerra, e certo lo avrebbero ucciso se ne li avesse sconfortati, e non si fosse anzi posto nella fronte delle schiere, guerra esso pure volle e gridò.

Sentitasi dai Fiorentini la loro deliberazione, fecero adunare nella chiesa di S. Giovanni quelli che allora chiamavano capitani e governatori di guerra. Dovean tener consiglio per qual via fosse meglio l' andare ad Arezzo, se pel Valdarno o se pel Casentino. La raunanza avvenne il giorno tredicesimo di maggio, anno 1289.

In quel giorno avresti veduto Firenze mutare d'un tratto i sollazzevoli pensieri del gaio mese in quelli sanguinosi della guerra e della vendetta. Nè più omai si

pensava di mettere in ordine gli adornamenti, le gioie, le vesti sontuose; e nè i palî, i pennoni e gli stendardi che ciascheduna terra soggetta dovea per censo; non i ceri e tutte l'altre cose che si solevano offerère poi al duomo di S. Giovanni. In vece i fondachi di via degli Spadai e di via dei Balestrieri erano come messi a ruba da' giovani, che ebbri di gioia feroce andavano a comprarsi o riforbirsi le armi. Chi usciva con uno enorme spadone a due mani, chi con una mazza ferrata a mo'di quella che alle Chiuse delle Alpi rotava sì gagliardamente Adelchi, lo strenuo figlio dell'ultimo re longobardo; quale si adattava in testa un elmo d'acciaio smagliante; quale volevalo colla visiera a cerchielli, quale a piastra forata; ma un altro sdegnava di tenere nascosa la fronte al nemico, e amavalo tutto aperto. V'era chi contendeva sul prezzo d' un usbergo di finissima tempra; e chi prezzava una barbuta, e chi una corazza alla fiamminga: uno facevasi racconciare le maglie del ghiazzerino che la partigiana dell' avversario aveagli scomposte sul petto; chi ripuliva il giaco, il piastrino: chi rinnovava le corregge alla parma, alla rotella, al pavese, al brocchiere. E un altro voleva fregiato di borchie di rame o d'oricalco l'astile della partigiana: quel giovinetto faceva appicare un pennacchio d' insigne ricamo a sommo il frontale del suo corsiero, per guisa che il fregio gli pendesse bellamente all' una delle tempie, e al cavaliero anche nel turbinoso scorrazzare della battaglia ricordasse l'amore di quella cara che trepidando avealo gentilmente lavorato perchè gli aggiugnesse sprone a valore. Ecco un altro diceva al compagno: la vėdi questa labarda bianca e lucente? la vo' tignere in rosso nella gola d'un cane ghibellino! e così la diventerà l'insegna del nostro comune Viva il nostro comune: gridava un terzo: morte a' ghibellini! Precisamente come oggi si grida: viva l'Italia morte a' codini.

Mentre così quella balda gioventù vociferava e davasi
Piccarda Donati

Disp. 7

attorno ai guerreschi apparecchiamenti, di improvviso all'estremo lato della strada degli Spadai (via Martelli) là dove sbocca nella piazza del San Giovanni, ecco sorgere su di un pilastro la veneranda figura di un vecchione vestito dell' assisa de' frati di Maria, o Gaudenti come per istrazio nomavali il volgo.

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Ecco il profeta delle sciagure, cominciò uno de' più arrabbiati; che vorrà dirci?

favellare.

Gli è un santo, diceva una voce; lasciamolo

è un

È un ghiottone, soggiungeva un terzo: — briaco; non vedete ei barcolla dal vino d'jersera? Gli è un frate gaudente e tanto basta.

E un'altra voce: parmi quel ricco frate che fonda il monastero degli Angioli: zitti; s'ascolti!

È un ghiottone..

E un santo! più fortemente risonò una voce, e allora tacquero tutti. Era la voce di Lapo degli Ulivieri.

Il buon religioso non udiva o dissimulava i costoro elogi o scherni; e la sinistra appoggiando ad un bastone per equilibrare il mal fermo edifizio del corpo, colla destra e coll'atto del capo accenava di voler parlare. Dopo pochi istanti una stipatissima corona lo cingeva in profondo silenzio. Fra Guittone con vivo sentimento allora incominciò (1):

<< Infatuati miseri Fiorentini! O miseri, miserissimi, disfiorati, ov'è l'orgoglio e la grandezza vostra, che quasi sembravate una novella Roma volendo tutto soggiogare il mondo? E certo non ebbero cominciamento i Romani più di voi bello, nè in tanto di tempo più non fecero, nè tanto quanto eravate inviati a fare stando a comune e in pace col sangue vostro. O miseri, mirate

(1) Questa parlata è presa quasi per intero dall' Epistola XIV di detto Fra Guittone.

ove siete ora, e ben considerate ove sareste se fustevi retti ad una comunità, dividendo con giustizia gli onori e gli ufici, non si brigando l'un l'altro soppiantare e togliersi con forfatti il reggimento. I Romani soggiogarono tutto il mondo; divisione halli tornati a niente quasi guelfi e ghibellini noi siamo un sangue: perchè strazieremci fratelli? Non vi è già fiera crudele tanto che il suo simile offenda, fuor solamente le fiere che dimorano coll' uomo come cavallo e cane: e ciò non credo appresero dalla natura, ma dalla malizia dell'uomo: coll' uomo addimorando hannolo appreso! Isbendate oramai, isbendate vostro bendato viso, voi a voi rendete, e specchiate bene in voi stessi e mirate che è da guerra a pace, e ciò conoscerete dai frutti loro. Per voi ha più savore in guerra buccella secca, che in pace ogni vivanda: ah! chi vi muove a cosa tanto diversa? »

Un leggero ma universale mormorio si levò per la moltitudine a queste parole.

« Ah! chi vi muove a cosa tanto diversa? Ditelmi, se vi piace, in vostra scusa; chè natura, nè legge, nè alcuno uso buono, nè ragione, nè cagione, nè pro, nè onore vostro, nè gaudio vedere ci so! »

E il mormorio cresceva, e molte teste scotevansi disdegnose. Il frate continuava sonoro ed infiammato:

<< E se dir mi volete che pregio e piacere sia grande per voi il danneggiare e disfare i vostri nemici, dico che ciò è vero; ma vi domando chi i vostri nemici sono: e se mi dite i vostri vicini gli Aretini in tutto e dico che non son già.

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...

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nego

Un urlo generale d'indignazione e di minaccia troncò l'arringa di Guittone, e la plebe indragata diceva: Abbasso l'Aretino; abbasso il frate, il ghibellino. E per sedare alquanto il rimescolamento fu mestieri che Lapo spiegasse proprio tutto il prestigio di sua autorità: or la preghiera adoperando or la rampogna, si faceva strada tra le picche e le partigiane da sè rimovendole

colla franchezza, onde il villano rimuovesi d'attorno le spighe traversando un campo di grano. Giunto a piè il pilastro diceva: popolo, state fermo e udite la fine.

<< Nemico all'uomo, riprese Fra Guittone, non è che la nociva cosa, e cosa nociva non è che il peccato; questo però alcuno non prende ove non vuole. Dunque a ragione dell' uomo nemico è il solo peccato. E se è il solo nemico, quello solamente è da odiare; onde se lui odiate e distruggete, odiate e distruggete il vostro nemico, ed io molto vel lodo: ma se odiate e distruggete l'uomo, odiate e distruggete voi, e ciò si mostra per più ragioni. »

Quivi espresse le ragioni ripetendo come gli avversari di parte fossero del medesimo sangue, che farebbe d'uopo rispettarli, che distrutti quelli anche le forze di parte guelfa correrebbero a rovina; ragioni ed ammonimenti che ben quadrerebbero anche in oggi: ma vedendo che molti partivansi di là conchiudeva dicendo:

<< Siete ingannati se mantenete il giuoco lungamente; chè alfine voi essi consumerete, ed essi voi, come due barattieri l'uno consuma l'altro al giuoco, giocando lungamente. E poi: rimasa padrona una parte, è levata una discordia, la cagione non già: la cagione v'alberga dentro dal petto; è la cieca cupidigia, è l'ira folle: ponete giuso dal cuore queste perverse, e pace e gaudio e onore e grandezza allora in voi saranno. Che vuol dir guelfo? che ghibellino? Noi siamo un sangue: e quei son nomi di maladizione che ci vennero d'oltre la cerchia delle montagne, donde tutti scesero a noi i semi delle disavventare: che guelfo? e che ghibellino? Noi siamo un sangue! Viri, fratres estis: ut quid nocetis alterutrum? (1) »

Ma il frate di Maria avea bel dire, l' uditorio portava convinzioni tutt' affatto diverse. Canta, bel frate gaudente: quest'anno per S. Giovanni a tuo dispetto si

(1) ACT., VII. 26.

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