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vôlto a me che rompevo in altissime grida: sta', figliuola, mi disse, non piangere; anzi prega per la tua genitrice, prega che miti sienle i divini giudicii. E altre cose disse il venerabile uomo, ma nol compresi, che già l'anima mia era fuggitiva dai sensi. Oh qual giorno fu quello per me! quante lagrime già pur pensandovi mi cava dagli occhi!

Qui la villanella pose fine alla dolente istoria, la quale più volte per compassione avea condotto a lacri mare le donne. Nella vedendo allora che il caldo era in gran parte diminuito disse che sarebbe stato ben fatto il ritornarsene al castello, e Piccarda fu dello stesso avviso : ma prima questa vezzeggiando la Nannina e dicendole acconciatamente mille cosette, fecele tornare ilare il volto. Poi, trattasi un anelletto d'oro ov' era sculto un croci fisso diellelo prima a baciare, poi disse: te' carissima fanciulla, questa immagine ti faccia sempre più amabile il patire e ti sia anche ricordo di me che ho pianto al tuo pianto. Anch'io, sai, ho perduto l'angiolo di madre che aveva! Io mi ti proffero amica, anzi sorella, dacchè sorella non hai.

Anche Nèlla volle farle un regalino d'una medaglia, di cui Giovanna subito adornò il suo rosario. Intanto, all' una e all'altra per tanta degnazione reso quelle grazie che maggiori potè, congedossi. E richiamati i guardiani, i quali s'erano posti a giuocare, e fatto un inchino al tabernacoletto della querce, poichè già era l'ora della seconda pastura, di là si mosse colle agnelle per metterle su di un greppo freschissimo e verde.

Le gentildonne rapite fuor di sè da un misto di contento e di compassione piede innanzi piede ripresero la callaia della villa: ma Piccarda non sapeva staccare gli occhi dalla vista di Giovanna che dilungavasi: e quando fu in parte ove si dileguava affatto al suo sguardo esclamò sospirando: oh, angiolo di fanciulla, foss'io ne' tuoi panni!

Perchè la figlia del gentiluomo invidiava i cenci della pastorella?

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Prezzo si era governato da' guelfi e da' ghibelli ni (1287) per egual parte: di pari autorità erano nel reggimento della cosa pubblica e

giurata avieno tra loro ferma pace » assicuraci il buon Dino Compagni. E per avven. tura questa concordia non sarebbesi rotta così di leggeri se i guelfi di Firenze non avessero stimolato que' lor consorti d' Arezzo a ghermirsi intera la signoria della città. Questi s'ingegnarono co' più furbeschi raggiri d'ottenere l'intento; perciò ebbero richiesto di soccorso anche Papa Onorio de' Savelli ma egli era per i ghibellini. Il perchè ogni maneggio riuscito vano, e per giunta scoperte le lor macchinazioni dalla parte avversa, furono spodestati ed espulsi dalla città. Allora addivenne che Arezzo si empiè di ghibellini, Firenze di guelfi, e quella cacciata più tremendamente raccese gli antichi rancori delle due fazioni.

Rannodatisi così gli Aretini e fatti vieppiù baldi per l'aiuto giunto loro d'Alemagna con messer Perzivalle dal Fiesco vicario dell' Impero, intimaron guerra ai Fiorentini e ai Senesi ad un tempo. All' entrata di febbraio dell'anno appresso, cinquecento cavalli e gran numero di pedoni s'incamminavano nel contado di Fi renze. Pervenuti a Montevarchi, che era guardato da piccolo presidio di guelfi fiorentini, si sparsero per le circostanti campagne rapinando e mettendo a soqquadro quanto loro si parava dinanzi.

Amenissimo tratto di amena provincia anche allora offrivasi allo sguardo la campagna che circonda Montevarchi. Le colline che vagamente ricingono la terra dalla banda australe ed occidentale erano anche allora coperte di vigne, di oliveti e d'ogni ragione di pomieri. Nel piano dell' Arno e su i poggetti di Réndola, dei Cappuccini e di Ricasoli, i quali intramezzati da rivi e torrentelli di acque pure si avvallano con dolce china, crescevano in quel mese rigogliosi i grani e tinti d'un bel verde a dolce speranza degli agricoltori. Ed essi chiusi per entro i villerecci abituri davan opera a frangere olive, contenti e beati in quello agevole lavorìo, cui si pigliavano a ristoro dei duri travagli della state. D'un colpo gioie sì pure furon però turbate quell' anno, e nella bella contrada videsi rinnovato l'infinito dolore delle nefandezze di Attila, quando co' suoi Goti, co' suoi Vandali, con i Danesi e gli Ungheri scendeva turbinoso in Italia lasciando dietro sè il solco della desolazione e della morte. Manomesse lamentaronsi le sostanze con tanto sudore da' poveri campagnoli adunate; spillate le botti del vino, esaurite le orciaie, depredate le biade, guaste le case o arse con entrovi le masserizie; e poi contaminazioni e lordure e sevizie da disgradarne i seguaci del Flagello di Dio. E chi erano questi novelli Vandali? Eran fratelli: la terra stessa a tutti costoro era stata nutrice comune; breve cammino divideva la

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cuna degli uni da quella degli altri, e il medesimo cielo aveva raggiato sul lor viso pargoletto i limpidi zaffiri del suo splendore.

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fu paga a tanto sterminio la rabbia faziosa: con ciò sia che poco dipoi (marzo 1288) l'oste d'Arezzo trasse novellamente ad innondare la pianura montevarchese, e dacchè non v'era altro da ardere per campagne, arsero tutte le case che sorgevano presso le mura della terra. Ciò fatto si mossero all'assalto del castello, e per tutto un intero giorno, come afferma Giovanni Villani, batterono le mura e vi manganarono dentro enormi pietre. Scarso pur questa volta il presidio di gente lasciatovi da' Fiorentini: certo la terra fra breve sarebbe venuta a mano degli avversari suoi ove il popolo, veggendosi sovrastare l'estrema rovina, non fosse corso animoso alla difesa della cerchia natìa. Per lo che schieratisi tutti coloro che validi di membra potevan recare il sacrosanto soccorso alla patria, si furono incontanente armati di quella foggia che meglio per loro si potette: indi fermi di vincere o di morire balzarono in sulle crollanti muraglie. I vecchi e i fanciulli eransi adunati alla chiesa chiedendo mercè a Dio e ai santi patroni: ma le donne di gagliarda età fieramente succintesi poser mano a disfare i selciati delle strade e a ministrare così le armi ai combattenti. Mancavano le quadrella agli arcadori; ed esse rovistate le case ne traevano ogni maniera di ferramenti, cui di subito i fabbri-ferrai foggiavano in dardi e verrettoni. A quest' arme che sì destramente maneggiarono dovettero principalmente il loro scampo: per essa riesciron vane e costarono immensa strage al nemico le fazioni d' approccio. I cavalli leggieri de' Tedeschi urgevano all' antiporto e sulle sponde del prossimo torrente: ma dalla incessante scarica ful. minati di fronte e di fianco sgominavansi per forma, che molti vinti dal dolore delle trafitture precipitavano nell'alveo, schiacciando i fanti che di laggiù si studiavano

tenere in rispetto gli arcieri. Finalmente in sull'imbrunire sbigottiti i ghibellini alla indomabile resistenza, e scorati da tanta percossa di morte, abbandonarono l'im presa, e pieni di maltalento si furono ridotti in un vicino colle. Indi spinsero uno squadrone di scorridori a disertare il contado fiorentino, a S. Donato in Collina fecero enormi guasti e incendiarono quanto più potettero di quelle ville e casini eleganti; e fu si ampia la distruzione e lo sperpero che, come dice il Villani: «< i fumi delle case e dell' arsione si vedean dalla città di Firenze. >>

Videro i Fiorentini: altissimo sdegno gli prese - e ne' primi giorni di giugno dell'anno medesimo la strada aretina tremava sotto l'ugna di duemila seicento cavalli, sotto il piè di dodicimila pedoni. E qua scorrerie e saccheggi per ventidue giorni, e ossidioni di castella e fortezze. Laterina sopra gli altri luoghi opponeva durissima resistenza: pure all'ottavo giorno patteggiò la resa. Colà i Fiorentini furono raggiunti dai loro consorti e alleati, i Senesi: venivano con quattrocento cavalli e tremila fanti. Fecer groppo e defilato marciarono sopra Arezzo: ivi alla lor volta, giusta il consueto, le prodezze del tagliare le vigne, guastare le case del contado, e l'estremo dileggio di correre il palio nel prato adiacente alle mura il giorno del Battista. Contenti a questa soddisfazione, quasi avesser domato così i nemici e trionfatili, dier volta tripudianti. Ma i Senesi venian pregati a grande istanza non volessero smembrarsi, ma sì andassero di conserva co' Fiorentini per la via di Valdarno fino a Montevarchi: sarebbonsi poi ripiegati sull' agro senese per la strada di Montegrossi. Non voller prestare ascolto; pigliaron la più retta in vista ancora di dare così di passaggio una crollata al castello di Lucignano. La ripulsa all' amoroso consiglio degli amici costò lor cara; imperciocchè Gugliel mino de' Pazzi nipote del Vescovo d' Arezzo e Buonconte da Montefeltro e più altri capitani di parte ghibellina sentendo quale strada avrebber fatto i Senesi, apposta

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