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(ripiglia Manetto), e noi non ce la possiamo per nulla; sarà pure la faccenda così come dite. Ma perchè, io vi dimando, perchè dunque taluni qualche volta gli hanno a noia, e gli vogliono tôrre e scomunare? Hanno eglino forse ragione di esistere ?

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Han ragione e diritto più e meglio che ogni altra comunanza, e chi agli Ordini religiosi pretendesse imporre legami, o peggio, volesse scomunarli e annientarli, farebbe atto dispotico che nulla più; rinnoverebbe gli orrori e le spogliazioni d' Ezzelin da Romano. Lo so anch'io che certi cotali varvassori gli chiamano a giudizio e con sonanti parole sentenziano: costoro non essere più all'uopo oggimai; costoro non rispondere altrimenti al fine perchè furono stabiliti; però si tolgan di mezzo e se ne arranfi la roba. Se non che il sentenziare su frati e preti è sol della Chiesa que' varvassori avran senno forse a giudicare di cavalli e di femmine; delle cose di Chiesa non mai, o quasi mai. Le ragioni perchè tali convivenze deb. bano esistere sono mille, chi voglia in coscienza sentirle; dirò solo un esempio. Non sarebbe, dite, una scellerata e rudda giustizia quella se il comune, la Signoria, in somma, chi ha in mano il reggimento, diniegasse, senza ragione di sorta, a' mercatanti il formare consorterie e compagnie, le quali fansi per agevolare i guadagni del commercio? E se quelle già formate disciogliesse bruscamente e si pigliasse gli averi? Non ci ha pur ombra di dubbio; perciò sarà sempre lecito a quei, che meglio penetrati de' sentimenti religiosi vogliono far compagnia insieme per agevolare i guadagni dell'anima, sarà lecito dico il farlo; anzi senza manco veruno ne avranno più forte il diritto che non le compagnie del commercio ed altre somiglianti. La ragione del più forte diritto riposa sul pericolo minore che per loro può recarsi, al comune, chè sol di cose dello spirito si travagliano essi, e delle terrene tanto tolgon per sè quanto è il bisogno loro, il rimanente riversando nelle mani del popolo.

Eccomi al cherico . . .

Mentre Eusebio queste ultime cose diceva rombò ad un tratto per la strada un gran rumore, come di popolo che vociferante trascorra. Ed invero la gente dovea gridar alto, quando le voci potettero soverchiare l'im menso frastuono dell' altre sale, e giungere alla recondita stanza dei servi. Manetto curiosissimo, come dicemmo, lasciò senz'altro i compagni e corse fuori: poco stante s'alzarono anche questi ed uscirono. Che cosa era avvenuto ?

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Giovanni villani candidissimo narratore de' patrii avvenimenti, dopo aver fatto a Dante quell' encomio che per lui sapevasi migliore, scende a toccare, così tra parentesi, d'alcune taccherelle dell'animo di lui: egli era Dante; o per questo doveva essere perfettissimo? Dice adunque messer Giovanni, che costui « per lo suo << sapere fu alquanto presuntuoso e schifo e isdegnoso, e

<< quasi a guisa di filosofo mal grazioso non bene sapea << conversare co' laici. » E di questa sua schifiltà e mala grazia co'laici, cioè con gl' idioti, esso dava esempio pur allora. Perciocchè in quel giorno medesimo dopo il desinare, cogliendo l'occasione che la pioggia aveva fatto tregua, egli se n'era uscito a diporto, avendo, com'era usanza, la gorgiera al collo e le bracciaiuole alle braccia. Volle il caso che là vicino alla Neghittosa gli occor resse dinanzi un asinaio, il quale del più buon umore del mondo cantava il canto secondo dell' Inferno.

L' Alighieri allora aveva forse verseggiato tre o quattro soli canti della sua divina Commedia, e il popolo già gli sapeva a memoria, prova non ultima della lor sovrana perfezione.

Ma a Dante non piaceva punto il cantare a quel modo, poichè l'asinaio diceva :

O anima cortese mantovana,

Di cui la fama ancor nel mondo dura,

E durerà quanto il moto lontana;
L'amico mio, e non della ventura,

Nella diserta piaggia è impedito

Sì nel cammin che volto è per paura;

E voltosi poi agli asini soggiungeva arri!

E temo che non sia già si smarrito,
Ch' io mi sia tardi al soccorso levata,

Per quel ch'i'ho di lui nel cielo udito.

Or muovi (arri, dico) e con la tua parola ornata,
E con ciò che ha mestieri al suo campare
L'aiuta sì, ch' io ne sia consolata.

Così seguitando toccava tratto tratto i somieri, e di quelle vaghe interiezioni appulcrava la poesia: quando il giovane poeta giuntoli dappresso gli menò col bracciale una solenne batacchiata sulle spalle, ed aggiunse: cotesto arri non ve lo misi, io! Che volete vedere? I vicini uscirono nelle più alte risate, i lontani accorsero, e di presente un affollare, un aizzare dietro al povero asinaio, un dàlli prolungato e fragoroso che parve un tuo.

no. Quegli non sapeva nè chi fosse Dante, nè perchè quel tale lo avesse percosso; laonde per uscire del brutto imbarazzo toccava gagliardamente gli asini, più che mai gridando arri, arri là. E quando si fu dilungato un poco, voltosi di nuovo a Dante gli fece colla mano un atto d'osceno disprezzo. Io non te ne farei una, disse Dante, per cento delle tue!

Altro simile incontro, avvenuto poco innanzi a questo, ci fa pure testimonianza della natura difficile, e quasi diremo bizzarra del nostro Alighieri. Questo e quel fatto ce lo racconta Franco Sacchetti antico novellatore fiorentino.

Mentre recavasi un giorno dall' esecutore di ginstizia per accattar grazia ad un cavaliere degli Adimari, gli fu bisogno di passare per porta san Piero, dove ebbe udito che un fabbro cantava i suoi versi. Ma il guaio si era che costui gli tramestava a grande strazio, appiccando e smozzicando a suo talento, press' a poco come l'asinaio, per forma che al poeta sembrava ricevere da quello grandissima ingiuria. Onde senza parola profe. rire s'appressò alla bottega di lui, e presogli il martello glielo gettò in mezzo alla strada: le tanaglie pur così, le lime, gli scalpelli e molti altri arnesi gettò parimente sulla via. Il fabbro ciò vedendo stette alquanto sopra sè per la novità della cosa, indi con grande ira gridò: Che diavol fate voi; siete impazzato? E Dante a lui: O tu che fai?

Fo l'arte mia, e voi sperperate le mie masserizie gittandole nella strada.

Se non vuoi ch'io guasti le cose tue, non gua

stare le mie.

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Affè! o che vi guast' io?

Tu canti il mio libro e non lo di' come io lo feci;

io non ho altr' arte e tu me la guasti.

Il fabbro allora non sapendo risponder cosa che valesse, si diede a raccorre pien di stizza gli arnesi e tornà al suo lavoro.

Questi sono gli apologhi: quale epimitio, ossia moralità, così di passaggio, potremmo noi cavarne? Potrebbe farsi a mio parere una semplice e bella applicazione, e dire che l'asinaio ed il fabbro rassomigliano a' moderni missionari protestanti, i quali leggono e fanno leggere senza regola e senza freno la Bibbia, e mutilano e falsificano le divine Scritture per soddisfare al capriccio dei loro padroni, pagatori larghissimi. A costoro Domeneddio potrebbe dir come Dante al fabbro di porta san Piero : « tu canti il libro mio e non lo di'come io lo feci. » Onde per il loro migliore dovrebbero imitare il fabbro medesimo, che raccolti i suoi ferramenti, giudicò meglio porsi a cantare di Tristano e di Lancellotto, e lasciare star Dante; sarebbe meglio dico per cotestoro che ripigliassero i loro ferri e se ne tornassero ai paesi nativi a leggere e cantare pur essi del loro Tristano o di Lancellotto dal Lago lasciando stare la Bibbia, e gli Italiani, che di gran cuore li ringraziano delle lor maravigliose e nuove dottrine.

Nel tramestio della folla i compagni si erano dilungati d'assai, onde vi volle non poco perchè si rattestassero. Ma l'ora era passata e del cherico non si poteva dire nè ascoltare più nulla omai: datisi recapito per il domani, Eusebio andò a curare i suoi affari, Manetto e Farinata s'incamminarono ciascuno a casa i lor padroni.

Manetto, come dicemmo, avrebbe voluto sapere qualche cosa intorno a Piccarda, ma visto che non era buon trattare con uno fatto meleuso dalla crapula, pensò di rimettere il tutto al giorno seguente.

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