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tener conto che ci troviamo di fronte a due momenti così diversi della vita d'un medesimo popolo, e su di essi sono passati tanti secoli e tante vicende, che lo splendore antico non può entrare a far parte della grandezza moderna se non come tradizione. Ora la comedia del cinquecento prende, è vero, le mosse dalla latina, ma ci rappresenta in gran parte la vita contemporanea. La mancanza d'una completa originalità anche nella concezione della favola, dipende dalla grande ammirazione che i letterati tributavano alle opere latine, e dalla sfiducia di poter, non già superarle, ma nè meno uguagliarle: e perciò l'Ariosto, pur comprendendo che la comedia doveva assimilarsi gli elementi del suo tempo, resta attaccato all'antica, non perchè non sappia creare una favola nuova, ma perchè non può concepir l'idea che quella inventata da lui potrebb'esser migliore di quelle di Plauto. Tutti i caratteri nuovi, tutti i risultati dell' osservazione continua sulla natura umana, servono a far rifiorire l'antico tronco, non a piantarne uno nuovo. Tanto vero che crede la lingua italiana disadatta alla comedia, mentre

rifà la storia d'Italia. Gli Spagnuoli e gl'Inglesi rappresentarono il loro tempo migliore e più vitale, e, direi quasi, la loro età eroica gl' Italiani sempre ricordarono e però rappresentarono la loro antica storia che si chiama Romana

A me pare adunque che il dramma italiano sia nazionale per questa stessa ragione che ai nostri critici non sembra, la quale è che il nostro dramma riproduce la storia e la forma greco-latina, con un miscuglio di credenze cristiane; riproduce la nostra vita, che fu e sarà sempre un misto di cristianesimo e di paganesimo ».

poi se ne serve con tanta profusione nell' Orlando (1). Poco dopo il Bibbiena sente anche lui il bisogno di giustificar l'uso del volgare nella Calandria, e poi il Trissino nella tragedia, e poi altri.

È notevole questo fenomeno, che dopo quattro secoli dacchè si parlava, dopo la Comedia, il Canzoniere, il Decamerone, le poesie italiane del Medici e del Poliziano, l' Orlando Inamorato, il Morgante Maggiore, ancora si discute se il volgare sia atto a tutti i generi letterari. La questione era stata posta da Dante nel Convito; discussa una seconda volta, e con argomenti quasi simili, da Lorenzo de' Medici; ora è risollevata dai comediografi. Se però consideriamo che la lingua italiana s'adoperava senza discussione per tutto ciò ch' era nuovo, ch'era sorto e s'era svolto con essa, ma che quello che aveva riscontro nel mondo classico o era scienza, si scriveva in latino (2), ne possiamo dedurre che la comedia non fu, sul principio, considerata come un componimento sorto da un bisogno dei tempi nuovi, ma piuttosto come un' esercitazione lette

(1)

La volgar lingua di latino mista

È barbara e mal culta, ma con giuochi
Si può far una favola men trista.

(2) Dante scrive in italiano la Comedia, in latino il De Vulgari Eloquentia e il De Monarchia; il Petrarca ci dà l'Africa in latino, il Canzoniere in italiano; il Boccaccio il Decamerone in italiano e la Genealogia Deorum, De Casibus Virorum Illustrium, De Montibus, Sylvis, etc., le Eclogae in latino; e continuando gli esempi, si trova lo stesso in Lorenzo il Magnifico, nel Poliziano, e in altri. Così l'Ariosto adopera senza difficoltà la lingua italiana nell' Orlando e la trova disadatta alla comedia.

raria; e si volle perciò riprendere il cammino da Plauto e da Terenzio, come se non fossero passati sedici secoli.

Di questo cammino l' Ariosto ne percorse un buon tratto nelle cinque comedie che compose; anzi in qualcuna di esse c'è persino l'intenzione d'inventare una favola nuova (1) e s' egli non ci riesce del tutto, si scorge però che i personaggi sono studiati dal vero (2).

L'ira, il desiderio, l' avarizia, l'amore sono espressi in un dialogo vivo e con parole vere e sentite; i costumi del suo tempo sono ritratti con un' evidenza che dimostra l'acutezza d'un osservatore cui nulla sfugge, e l'intenzione d'introdurre nella comedia gli usi del cinquecento (3). E non manca la satira che a quei tempi richiedeva nell' autore una certa quantità di coraggio. Nella Cassaria, quando Crisobulo vuol ricuperare la cassa che il figlio gli ha sottratta, al servo Volpino che lo consiglia a ricorrere ai magistrati, egli risponde con parole aspre contro di essi, e

(1)

Nuova commedia v' appresento, piena
Di vari giuochi, che non mai latine
Nè greche lingue recitaro in scena.

(2) L'aneddoto ch' egli, rimproverato dal padre, lo lasciasse gridare senza scolparsi, e che infine esclamasse: La mia scena è fatta! se non è vero, ci attesta però l'opinione dei contemporanei sulla sua originalità.

(3) Cassaria Atto 2.o Scena ultima

Atto 5.° Scena 3.a

- Atto 3.o Scena 3.a

conclude che chi vuol giustizia bisogna che se la faccia da se (1).

Pure quelle parole, che sono troppe per un uomo che dovrebb' essere esasperato di non trovare nelle leggi e nei magistrati l'aiuto che gli

(1) Crisobuto - A chi più danno i gran maestri credito,
Che agli ruffiani o ai tristi che dileggiano?
Di chi si fan più beffe, che degli uomini
Dabbene e costumati? A chi più tendono,
Che a mercatanti e pari miei le insidie,
Ch' avemo nome d'esser ricchi? .

Se a quest' ora andassimo
Al Capitano, so che v' anderessimo
Indarno, o che ci farebbe rispondere
Che volesse cenare; o ci direbbero
Che per occupazione d'importanzia
Si fosse ritirato: io so benissimo
L'usanza di costor che ci governano,
Che quando in ozio son soli, o che perdono
Il tempo a scacchi, o sia a tarocchi o a tavola,
O le più volte a flusso o a sango, mostrano
Allora d'esser più occupati; pongono
All'uscio un Servitor, per intromettere
Li giocatori e li ruffiani e spingere
Gli onesti cittadini e gli uomini
Virtuosi.

Volpino Se gli facessi intendere
Che tu gli avessi a dir cose che importano,
Non crederei che ti negasse audienzia.

Cris. E come si potrà farglielo intendere?
Non sai come gli uscieri ti rispondono:
Non se gli può parlar? Fagli di grazia
Saper ch' io sono qui di fuor. Commessemi
Ch'io non gli fessi ambasciata - Rispostoti
Ch' hanno cosi, non bisogna che replichi
Altro: Si che sarà meglio ch' io proprio
Senz' altri mezzi entri qua dentro e piglimi
Le cose mie. .

occorrerebbe in tanto frangente, il vecchio le dice per esprimere una sua convinzione; ma il fatto ch' esse ci vogliono apprendere, non ha l'efficacia che potrebbe aver come satira, se invece d'esser raccontato, fosse rappresentato. E il racconto è più comico che satirico, per la natura stessa dell' Ariosto. Dice il Ginguené: « A differenza delle altre commedie di moda, quelle dell' Ariosto paion fatte per seguire l'impulso del suo ingegno osservatore e dolcemente maligno, e che la natura nel fare di lui uno dei più grandi poeti che abbiano esistito, gli aveva specialmente compartita la virtù di conoscere e ritrarre i caratteri, i vizi, le ridicolaggini degli uomini ». Ma non va più in là di questo, non si riscalda il sangue, e dopo la lettura delle sue comedie, e anche delle sue satire, restiamo col sorriso sul labbro, nè quel sorriso è turbato da alcun'altra preoccupazione di spirito.

Alla Calandria del Bibbiena mancano pure i pregi artistici che sono nelle comedie dell' Ariosto; manca ugualmente l'originalità della favola; eppure è stata forse la più lodata del cinquecento e perciò quella che ha dato origine ai giudizi più erronei dei critici, specialmente stranieri, sulla comedia italiana di quel tempo (1).

L'argomento è stato suggerito dai Menaechmi: la somiglianza di due fratelli. Il Bibbiena ci fa

(1) V. specialmente Schlegel - Storia della lett. dramm

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