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liturgia cosa più commovente di quel lamento si doloroso, le cui strofe monotone piovon giù come lacrime; e sì dolce ad un'ora che ben vi si scorge un dolore al tutto divino e consolato dagli Angeli; sì semplice per ultimo con quel popolar suo latino, che le donne e i fanciulli ne intendono mezzo per le parole, e mezzo per il canto e per l'affetto. Tal opera impareggiabile sarebbe sufficiente alla gloria di Jacopone; ma collo Stabat del Calvario ei volle comporre altresì lo Stabat del Presepio, in cui la Vergine Madre fosse ritratta piena di gioia per il suo parto. » (1) Alcuni vogliono che a lui si debba pure il Dies irae, non men bello e commovente, o all'altro Francescano, il B. Tommaso da Celano, o ad Innocenzo III come vogliono altri. E com'egli, il B. Jacopone, avea imitato nel poetare il suo Serafico Padre, cosi altri, specialmente i suoi confratelli, imitarono lui; di maniera che il Cenni ha potuto dire: « In quanto alla poesia nel medio evo tutti sanno quale influenza abbiano avuto al suo incremento S. Francesco ed il suo Ordine. »> (2) Ed eziandio più espressamente il Notari: «Cara e veneranda primizia della nostra poesia si debbe tenere fosse l' Ordine de' Frati Minori, molti de' quali, tutti serafici in ardore, facevano echeggiare le montagne dell'Umbria, inneggiando a Dio ed alla Vergine Madre ch'era il loro argomento prediletto. Le loro rime sono per lo più scabre e mancano d'arte; ma sono affettuose sopramodo, e nella loro schiettezza e semplicità hanno non di rado un non so che di nobile e di sublime. Oltre di ciò sono nostrali tanto nella lingua quanto nei pensieri....» (3). E questo è ciò appunto che si volea da noi provare.

(1) Ozanam, opera citata, pag. 122. Lo Stabat del Presepio, incomincia così:

Stabat Mater speciosa

luxta foenum gaudiosa
Dum jacebat parvulus.

(2) Uno sguardo al medio evo ecc. pag. 24.

(3) Storia della Letteratura Italiana ecc. vol. I. pag. 31.

3.

Tutti e tre influiscono poi assaissimo or direttamente ora indirettamente nell'arte cristiana in ispecialità nella pittura.

Se però S. Tommaso e più S. Francesco furon poeti anch' essi, e molto influirono insieme a Dante nella poesia e in tutta la coltura letteraria nazionale, influirono anche di più or direttamente ora indirettamente nell' arte cristiana sopratutto nella pittura; la quale in Italia giunse al massimo grado di perfezione, cui secondo le umane forze essa può arrivare, o almeno è arrivata fin qui. Dell' influenza di Dante, abbiamo già detto altrove quanto bastava al nostro scopo, qui vedremo solo di lui in che relazione si trovi su ciò coll'Angelico e coll'Assisiate. Del quale argomento, per quel che riguarda l' Angelico, ne discorre a lungo e da suo pari il P. Marchese: vediamone un saggio. « A volere che la pittura italiana, dic'egli, nel secolo XIII tornasse in fiore, bisognava ridonarle la coscienza delle proprie forze; depurarla dall'elemento straniero che vi si era innestato, e sostituire all'estetica eterodossa l'estetica ortodossa. E poichè gli artefici greci avevano ignorato o frainteso le prime e più essenziali nozioni del Bello, era mestieri definirne con precisione la natura e gli uffici nelle sue relazioni con la mente e colla civil società... Per quello poi che s' attiene alla pittura religiosa, capo di gran rilevanza, perchè l' Arte in quel secolo e nei due che seguitarono fu esclusivamente religiosa, era d'uopo distinguere il principale dall'accessorio, e determinare il compito che a lei spetta in ordine all'insegnamento della Chiesa verso il dogma, la morale, la storia, la liturgia ed il simbolismo, che ne costituisce la forma poetica. Cosifatte questioni richiedevano una mente elevata, usa alle speculazioni filosofiche, capace di tutte abbracciarle senza confonderle, accennando soltanto ai punti più luminosi, lasciando poi all'altrui attività lo svolgerle e dichiararle. E ciò è appunto quello che

tolse a fare S. Tommaso di Aquino, con inestimabile beneficio delle Arti e della poesia. Sembrerà forse a taluno che le amene dottrine del Bello non dovessero aver luogo negli ardui studi dell'Aquinate, inteso a tutto ordinare ed esporre con mirabile sintesi il dogma cattolico.... Ma avrebbe egli potuto ragionare del Vero e del Buono, principale oggetto delle sue speculazioni, e tacere del Bello che rampolla da entrambi? Come tacerne egli nato sotto il cielo ridente d' Italia, e tra un popolo imaginoso ove le Arti del Bello ebbero sempre cultori molti ed illustri? Che se la legge severa colla quale egli ordinava i suoi pensieri, e il rigore geometrico col quale gli andava sponendo, ne rattenevano gli slanci del cuore e i voli della fantasia, gl' imponevano almeno l'obbligo di ragionare del Bello nella sua massima idealità, e, direi quasi, col laconismo delle formole algebriche. Così fece egli; ma que' suoi pensieri, sebbene assai concisi, sono cosi splendidi e fecondi, che racchiudono in germe quanto si è detto di meglio dai più riputati scrittori di estetica.» Egli più innanzi espone alcuni di questi pensieri dell'Aquinate, sopratutto la definizione che dette del Bello; onde prosegue: «< Platone definì la bellezza, lo splendore del vero, e avrebbe potuto aggiugnere eziandio del buono. S. stino la disse lo splendore dell'ordine. S. Tommaso, a portar luce in materia si ardua, distingue dapprima il Bello sensibile dal Bello morale e intelligibile; poscia con una sola definizione abbraccia il Bello naturale e il soprannaturale, compie la defi-. nizione di Platone e di S. Agostino, e quindi rimonta fino all'archetipo della bellezza eterna, cioè al Verbo divino. Alla bellezza, egli dice, si richieggono tre qualità; in primo luogo la integrità dell'oggetto senza di che non si ha la perfezione; in se-condo luogo la proporzione o rispondenza delle parti, dalla quale risulta l'armonia dell' insieme, cioè l'unità ; da ultimo lo. splendore, il quale negli oggetti visibili consiste nella`gaiezza e vivacità del colore, e nei concetti razionali altro non è che la ragione stessa in una delle sue più splendide irradiazioni. Or queste tre proprietà si rinvengono in sommo grado nel Verbo divino, scaturigine e fonte della bellezza. E vaglia il vero; il Verbo in quanto è Figlio possiede veramente e in tutta la sua integrità

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la natura identica del Padre, del quale è consustanziale; n'è ad un tempo la imagine perfettissima, detto perciò da S. Paolo figura della sua sostanza; e finalmente in quanto è Verbo, egli è lo splendore dell' intelletto del Padre, o, come dice lo stesso S. Paolo splendore della sua gloria.» (1) Dichiarato questo punto di estetica per saggio, rifacciamoci indietro con lui. << Senonchè questa stessa sublimità e concisione dell' Angelico, segue a dire, e il linguaggio severo della scuola, la rendevano accessibile a pochi, inaccessibile affatto agli artisti, nemici delle astrattezze e delle generalità. Si richiedeva pertanto che alcuno, senza niente torle della sua pellegrinità, la traducesse in un linguaggio popolare, e, rivestitala di poetiche forme, la presentasse alle calde fantasie degli artisti siccome la musa ispiratrice del Bello. Questo importante servigio fu reso alla scienza e alle arti dall' immortale cantore della Divina Commedia, Dante Ali-ghieri. » E di fatto ei segue a dimostrare, che Dante entrò davvero anche in questo nella mente dell' Angelico, e lo seguì fedelmente da parte sua, tanto che nel canto XIII del Paradiso, finge ch' egli medesimo, l' Angelico, gli dichiari su ciò i propri concetti con que❜versi che incominciano. « Ciò che non muore e cio che può morire. » Onde conchiude : « Sono adunque i due più grandi ingegni dell' Italia che si uniscono nell'opera stupenda di creare la nostra pittura, l'uno infondendovi l'elemento razionale, l'altro l'elemento fantastico; dal connubio dei quali doveano poi sorgere tutti quei capolavori che formano l'ammirazione del mondo.» (2)

Tutto bene, ma con buona pace dello scrittore Domenicano, noi crediamo di potere qui introdurre un terzo nell'opera stupenda di creare o rinnovare la pittura cristiana e nazionale;

(1) Ecco il testo originale di S. Tommaso: « Ad pulchritudinem tria requiruntur. Primo quidem integritas, sive perfectio, quae enim diminuta sunt, hoc ipso turpia sunt; et debita proportio, sive consonantia; et iterum claritas, unde quae habent colorem nitidum, pulchra esse dicuntur. Quantum igitur ad primum similitudinem habet cum proprio Filii, in quantum est Filius habens in se vere et perfecte naturam Patris... Quantum vero ad secundum, convenit cum proprio Filii, in quantum est imago expressa Patris. Unde videmus quod aliqua imago dicitur esse pulchra, si perfecte repraesentat rem, quam vis turpem... Quantum vero ad tertium, convenit cum proprio Filii, in quantum est Verbum, quod quidein lux est, et splendor intellectus... (Summa Theologica, Pars I. quaes. 39. art. 8).

(2) Delle benemerenze di S. Tommaso d'Aquino ecc. da diversi luoghi.

e costui è il Poverello d'Assisi. Non già che costui pure v' abbia introdotto qualche elemento razionale, come fece S. Tommaso, o fantastico come Dante, ma si bene l'elemento diciam così esemplare; che certo non era meno importante degli altri due, considerata l' arte sopratutto come cristiana. Si davvero: S. Francesco era il più perfetto tipo allor conosciuto di tutte le virtù morali e cristiane; niuno meglio di lui ricopiava in sè il Figliuolo di Dio, bellezza eterna e tipo perfettissimo, dimorante fra gli uomini; niuno meglio di lui con quel suo ardente amore di Serafino, con quella sua innocenza poco men che angelica, rivelava le cose sovrumane del cielo; niuno meglio di lui con quel tenerissimo affetto per tutto il creato ne facea vedere le bellezze e l'armonia... Quindi l' amore di tutti i grandi artisti per lui e pe' suoi veri figli e seguaci, e il ritrarlo di continuo in tante guise e maniere. Nè solo mentre era vivo, nia sempre in tutti i secoli, specialmente finchè l'arte mantennesi cristiana: e questa è istoria. Di fatto, il primo pittore in Italia, che scostossi non poco dalla scuola greca, e che dette alla pittura un certo carattere nazionale, si fu Cimabue; ebbene, ei amava assai S. Francesco, quasi suo contemporaneo, rappresentollo in diverse guise, e lavorò gran tempo nelle chiese francescane, specialmente in Assisi ed in S. Croce di Firenze, come si rileva anche dal Vasari. Cimabue ebbe un discepolo, e questo discepolo ben presto superò di gran lunga il maestro, Giotto, che si ha percio qual fondatore della pittura veramente italiana:

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Credette Cimabue nella pintura

Tener lo campo; ed ora ha Giotto il grido,

Si che la fama di colui oscura, (1)

. Ebbene, la vita di S. Francesco, dice il più volte citato Chavin, fu il soggetto e il fondo di tutte le sue opere; fu il tipo che amorosamente portò nel cuore, e si piacque di ripetere e spesso ritrarre presso i Francescani di Verona, di Ravenna, di Rimini e in S. Croce di Firenze... (e potea aggiugnere, anzi con più ragione, in Assisi e in S. Antonio di Padova). Solamente un povero pastore potea intendere

(1) Purgat. XI, 94, 97.

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