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CAPO VII.

DANTE, E SUA GRANDE INFLUENZA NELLA LETTERATURA E NELLE BELLE ARTI.

1.

Bisogno in Italia nel secolo decimoterzo d'una letteratura veramente nazionale e cristiana: sorge Dante e la forma.

gni nazione, o popolo, perchè possa dirsi veramente incivilito e vivente d' una vita sua propria e indipen

dente, oltre il corredo delle idee e delle cognizioni scientifiche, egli dee possedere altresì una lingua propria, atta ad esprimere tali idee e cognizioni; una letteratura, o almeno almeno un poema eroico, base e fondamento di essa letteratura che ne canti degnamente le geste e le magnanime imprese; ed infine l'arte, sopratutto figurativa, portata ad una certa perfezione, con cui effigiare e rappresentare a' sensi le medesime ge ste ed imprese. Dee possedere in una parola i mezzi ed i segni acconci a manifestarsi per quel che è alle altre nazioni sorelle e mostrare quello per cui dalle altre nazioni essa si distingue. Anzi ciò è più importante della scienza medesima alla vera civiltà di un popolo, poichè a mezzo di tali cose assai meglio essa manifesta l' indole, la capacità e il genio di cui è dotata. Onde. Omero tra' Greci e Virgilio tra' Romani sono per avventura

meglio conosciuti ed eziandio più stimati che non Aristotele e Cicerone.

Che se ciò va detto d'ogni nazione, con assai più di ragione dovea esser così dell' Italia, destinata, come si disse più volte, non solamente ad avere una propria civiltà, ma inoltre precedere di tempo tutte le altre nazioni moderne, facendo poi loro in ciò da maestra ed esemplare; ed a rappresentare altresì tale una civiltà che fosse in piena corrispondenza ed armonia colle dottrine, di cui era stata già fatta depositaria, e col posto assegnatole dalla provvidenza di sede e centro del cristianesimo. Onde per quel che riguarda l'elemento artistico di questa civiltà, scrivea il Gioberti: « Il bello essendo un'idea individuata dalla fantasia, la nazione ideale e posseditrice de' primi elementi scientifici dee esser pure la nazione imaginativa per eccellenza, cioè quella che trovò i primi tipi, e li recò, educandoli e svolgendoli, al più alto segno di perfezione. » (1) La civiltà italiana perciò dovea esser tale da avere una propria fisonomia, per cui si fosse potuta riconoscere facilmente da quella di tutte le altre nazioni, principî e fondamenti generali, su cui edificare quelle che sarebbero venute poi; e sopratutto un'impronta assai marcata di cristianesimo sì nelle idee o ne' soggetti, sì nelle forme e nelle espressioni. Tanto che dire civiltà italiana e civiltà cristiana avesse dovuto significare in fondo una cosa stessa.

Egli è un fatto però, che nel secolo decimoterzo, ai tempi di S. Francesco e di S Tommaso, l'Italia non possedea ancora nessuno de' tre anzidetti elementi costitutivi o almeno completivi della vera civiltà; non possedea cioè nè lingua propria e formata, nè poesia eroica, nè arte figurativa: proviamolo. Lasciamo qui agli eruditi ed ai filologi la questione, se la lingua italiana non sia altro in fondo che una corruzione della latina, da cui certo prese i suoi principali elementi; o una derivazione dalla latina e insieme dalle lingue parlate anche prima della latina, specialmente dall' etrusca, mai spente del tutto nel popolo; o un miscuglio di latino e di dialetti

(1) Del Primato morale e civile degli Italiani ecc. vol. 2, pag. 140.

italiani massime del toscano, e delle lingue usate dai popoli barbari del nord che invasero le penisola dopo la caduta dell'impero romano. Lasciam pure l'altra questione in qual epoca propriamente si sia incominciato a parlare codesta lingua se qualche secolo prima del mille, o nel mille, o dopo il mille, ed in qual parte d'Italia abbia avuta la sua culla e la sua prima educazione, se in Sicilia o in Bologna, o in Toscana, o in tutti e tre questi luoghi insieme. Egli è certo però, che nel secolo decimoterzo essa era tuttavia bambina, povera cioè di vocaboli e di frasi, propria solo del volgo e della bassa gente, non introdotta ancora nelle scuole, nè atta ad esprimere alti concetti e materie scientifiche. Non era usata perciò che nel parlar familiare, nelle umili scritture e dai giullari e menestrelli, e dai ministri della religione nell' istruire il popolo. La poesia poi che cosa era mai? « poco altro più. risponde il Tiraboschi, che un semplice accozzamento di parole rimate, con sentimenti per lo più languidi e freddi e tutti comunemente d'amore; ovvero precetti morali, ma esposti senza una scintilla di fuoco poetico. » (1) Forse questo giudizio dello storico della nostra letteratura, se intendesi specialmente della poesia in generale, è un po'rigoroso; chè, non fosse altri, v'era un Ser Brunetto Latini, un Fr. Guittone d'Arezzo, un S. Francesco d'Assisi, un Guido Guinicelli, un Guido Cavalcanti, ai quali non mancava nò un certo fuoco ed estro poetico, onde si hanno di loro belle poesie, specialmente liriche. Ma è giusto se s'intende della poesia eroica e drammatica, per la quale il poeta si eleva veramente al di sopra del volgo, tratta argomenti nobili e grandi, d'interesse comune e improntati del genio della nazione e dell'epoca, poichè un poema di tal fatta non ci era davvero.

In assai peggiore stato poi trovavansi le arti figurative, ossia la pittura; poichè la lingua e la poesia eran sì tuttavia povere ed umili, come si disse, ma almeno eran nazionali, mentre la pittura era cosa affatto straniera, una servilissima. imitazione cioè della greca o bizantina; anzi era questa istessa

(1) Vita di Dante.

cacciata in bando dagli iconoclasti e rifugiatasi in Italia. La quale perciò era affatto priva di vita e di espressione, limitata a soli soggetti religiosi e cristiani, e questi sempre gli stessi nelle forme, nelle movenze, nelle acconciature, e perfino nel colorito e nelle dimensioni; quindi, a parlar propriamente, non era arte vera, perchè priva de'due elementi, di cui l'arte, principalmente risulta, dell'imitazione cioè della natura e del bello ideale. Era in fondo un'arte meccanica, che venia esercitata per lo più da gente ignorante e servile. Anche presentemente trovansi qua e là dei saggi in quelle Madonne dipinte su tavole cui generalmente si ha dal popolo molta divozione, perchè antiche e prodigiose; ma certo, giudicate dal lato artistico, valgono ben poco o nulla. Il P. Marchese, parlando appunto di questa pittura greca rifugiatasi in Italia, dice: «L'esule illustre fu accolta dai nostri come voleva la sua nobiltà e i patiti dolori; ma l'infelice non serbava più traccia alcuna dell'antica venustà e del primo decoro, ma squallida e avvizzita avea più sembianza di cadavere che di persona viva. Rare volte il benefizio tornò a più grave danno del benefattore; perciocchè gl'Italiani, non paghi di accogliere la Pittura greca, si fecero ad imitarla, e abbandonando lo studio del vero e le patrie tradizioni, ritardarono di più che mezzo secolo il suo risorgimento. E l'ammirazione per quel vecchio stile giunse a tale, che avendo Cimabue dato segno di volersene affrancare, Margaritone d'Arezzo se ne accorava come di pericolosa novità.» (1) Tale si adunque era lo stato della lingua, delle belle lettere e delle belle arti in Italia al sorgere d'un astro splendidissimo, Dante Alighieri, (2) il quale dovea essere, massime per le prime,

(1) Delle Benemerenze di S. Tommaso d'Aquino verso le Arti Belle ecc. pag. 12. (2) Nacque iu Firenze nel 1265 dalla nobile famiglia degli Alighieri, e fugli imposto nome Durante, ma poi per vezzo venne detto comunemente Dante. A nove anni s'innamoro fortemente di Beatrice Portinari, bellissima fanciulla di pari età; la quale perció, finch'egli visse, fu per lui l'ideale più perfetto della bellezaa fisica e morale della donna; onde dopo ch'ella mori in fresca età ne fece nella sua Cantica del Paradiso la più splendida apoteosi che possa mai imaginarsi. Nel 1300, per le sue impareggiabili doti venne fatto uno dei Priori di Firenze; però un anno dopo, mentre era Ambasciadore in Roma presso Bonifacio VIII venne dal partito politico a lui contrario condannato all' eşilio; ed in esilio passo tutto il resto della sua vita, girando per le diverse contrade d'Italia e d'Europa, finche nel 1321, affranto dai disagi e dai dispiaceri mori in Ravenna presso i Signori da Polenta, e fu sepolto nella Chiesa dei Frati Minori.

ciò che S. Tommaso era stato per la scienza e S. Francesco per la santità; quindi il terzo del gran triunvirato per cui l'1talia ha il primato sulle altre nazioni per tutto ciò che riguarda la vera civiltà, ch'è la cristiana cattolica. (1)

2.

Egli possiede di fatto tutte le doti, delle quali, secondo lui medesimo, dee esser fornito un grande poeta.

Dante stesso nella sua opera de Vulgari Eloquio, trattando della poesia eroica e tragica, dice, che niuno potrà mai riuscire buon poeta, massime in questo genere, senza acume d'ingegno, assiduità di arte ed abito di scienza: sine strenuitate ingenii, et artis assiduitate, scientiarumque habitu... (2) E chiama perciò sciocchi coloro che senz'arte e senza scienza, confidando solamente nel solo ingegno, si mettono a cantare sommamente le cose somme! Ciò che richiedea in altri, e giustamente, egli possedea davvero in sè medesimo, ed in un grado sì eminente, che non fu mai possibile non dirò superarlo, ma nemmen raggiugnerlo; onde in ciò che costituisce la sostanza della poesia, addivenne modello perfetto e maestro sovrano. E per fermo, anzi tutto egli avea sì acume d'ingegno, e tanto che coloro i quali ne parlano (e chi non ne parla ?) non trovano termini ad esprimerne l'acutezza, la potenza, l' estensione; sicchè convengono, eziandio gli stranieri, in chiamarlo straordinario, gigantesco, sommo, anzi divino. Adolfo Wagner, per esempio, assai studioso ed ammiratore di Dante, nel difenderne la originalità e la indipendenza, si esprime in tal guisa: «È un ingegno vasto, ampio e robusto, colmo e zeppo di quanto il tempo passato ed il suo gli offrono nello sviluppo loro istorico; un'anima impregnata, nutrita e penetrata d'idee sublimi, un senno acuto e sagace, esercitatissimo e pratico nella palestra apertagli in quel secolo agitatissimo, quasi ubriaco di gioia della convalescenza ;

(1) In questo senso appunto dice di Dante Humboldt: Scomparso dalle letterature il predominio aramaico, greco e romano, o, dirò meglio, tramontato il sole del mondo antico, ci si presenta il sublime e ispirato creatore d' un mondo nuovo...» (Cosmos, vol. 2 pag. 38). (2) Liber Secundus, cap. 4.

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