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tezza? Questo elemento è forse la sussistenza della cosa, in quanto è numericamente distinta dall' ente ideale, o l'ente ideale medesimo? Certò è l'ente ideale, poichè fuori di esso non vi ha elemento conoscibile; onde quando diciamo che una cosa esiste, il solo oggetto presente allo spirito in questo giudizio, è l'ente ideale medesimo. « Imperocchè la sussistenza.... delle « cose è esclusa dalla conoscenza propriamente detta; non appartiene punto nè poco all' intelletto, considerato come re«cettivo degli enti intelligibili, perchè dall' intelletto è essen«<zialmente escluso il reale, e non è che la sede dell'ideale 1. » Non dia qui impaccio quella voce propriamente, la quale è uno di quei palliativi, a cui è costretto di ricorrere l'illustre Autore, per coprire i vizi del suo sistema. Imperocchè il dire da un lato che la sussistenza è affatto inescogitabile, sarebbe cosa troppo forte; giacchè questa voce, trovandosi nel vocabolario, dee pure avere il suo significato. D'altra parte, il predicarla per conoscibile rovinerebbe da capo a fondo il sistema del Rosmini, che afferma nulla essere conoscibile, fuori dell' ente ideale. « La materia della cognizione divisa dalla cognizione « stessa rimane incognita, e su di lei non può cadere ques«tione di sua certezza, perchè la certezza è solamente un at<< tributo della cognizione. Ciò adunque, che s'identifica colla «forma della cognizione, è la materia della cognizione in << quanto è cognita; e questa cognizione succede appunto con un atto, mediante il quale ella s'identifica colla forma, per«< chè lo spirito in tal fatto non fa che considerar quella materia « relativamente all' essere, e vederla nell' essere contenuta, <«< come una attuazione e termine del medesimo. Per tal modo, prima che la materia sia cognita, ella è tale, di cui non possiamo tener discorso; ma quando è già a noi cognita,

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<<< ella ha ricevuto coll' atto del nostro conoscimento una forma, « un predicato che non avea prima, e in questo predicato

↑ Il Rinnov. della filos. del Mam. esam., p. 500.

« consiste la sua identificazione coll' essere; perocchè si pre<< dica di lei l'essere, e in questa predicazione stà l'atto, onde « noi la conosciamo1. » Ma possiamo noi conoscere, pensare, intendere in qualche modo l'elemento della materia, che è numericamente distinto dal suo predicato, cioè dall' ente ideale? No certamente, secondo l'illustre Autore. Dunque la sola sussistenza, conchiudo io, di cui noi abbiamo propriamente conoscenza, è quella di esso ente ideale; dunque la sola sostanza, che sia presente al nostro pensiero, quando affermiamo l'esistenza di una cosa, è il medesimo essere. Ora, se questo ente non sussiste, non v' ha nulla che sussista a rispetto nostro, e dobbiamo diventare scettici e nullisti. Se poi l'ente ideale sussiste, e se è Dio, ogni altra cosa dovrà aversi per un' appartenenza o qualità o modo di questa sussistenza unica, e il panteismo sarà la conseguenza necessaria di tutti i nostri discorsi.

La ragione adunque, per cui il roveretano filosofo ha creduto di dover rinunziare all' antica teorica della visione ideale, non può essere equivoca. Ma è egli vero, che questa teorica conduca a un risultato così enorme? Il quale certo sarebbe troppo più che non si richiede, per farla rigettare da ogni uomo assennato. Dovremo adunque ripudiare la dottrina degli antichi e dei nuovi Platonici, di sant' Agostino, di sant' Anselmo, di san Bonaventura, di Gersone, del Ficino, del Malebranche, del Thomassin, del Gerdil, per non essere panteisti? Il caso sarebbe veramente singolare, e se questi valentuomini petessero saperlo, avrebbero qualche cagione di meravigliarsene. E pure il panteismo consèguita necessariamente alla dottrina rosminiana, come abbiamo testè veduto; e il solo mezzo, che si abbia di cansarlo, consiste nel mettere tal dottrina in contraddizione seco stessa, e affermare nello stesso

4 N. Sag., tom. III, p. 110.

tempo, che l'ente ideale è obbiettivo e non sussiste fuori del soggetto, che è mentale e tuttavia non è una modificazione della mente, ecc.; sentenze, che tornano assolutamente ripugnanti fra loro. Che vogliam dunque inferirne? Che la teorica della visione ideale è intrinsecamente panteistica, e che non si può purgarla da questo vizio, se non torcendola, avviluppandola, facendola combattere seco medesima, e violando i precetti della buona logica? Se ciò fosse vero, non esiteremmo per un solo istante a ripudiar le premesse in odio della conclusione, e per amore della logica stessa. Ma noi non siamo ridotti a tale; e se il lettore ha qualche propensione verso questa bella e grande teorica, che riscosse l'omaggio dei più insigni luminari della scienza, e perfin del Rosmini, che pur l' ammise in parte, si rassicuri. Non che favoreggiare il panteismo, questa dottrina è la sola, che possa con buon successo oppugnarlo ed espugnarlo. Ma acciò ella sia in grado di sortire l'effetto, bisogna prenderla qual è, qual dee essere, quale fu dai nostri antecessori abbozzata, e a noi rimane di compierla. Ora, per non travisarla, la prima cosa, che si ricerca, è la cura di procedere col metodo opportuno. Il che non venne fatto dall'illustre Rosmini; colpa, non sua, ma del secolo. Il Rosmini, nato in una età analitica, signoreggiata da un falso metodo, ha creduto di poter con quest' arma sterminare gli errori, che regnano, e fra gli altri il sensismo, il razionalismo adulterino, lo scetticismo e il panteismo, che infettano la filosofia. Ma l'impresa è impossibile, poichè questi errori, e tutta l'eterodossia moderna, sono parti legittimi del psicologismo. Il voler curare il male colla causa, che lo ha prodotto, è opera non riuscibile l' omeopatia, se è buona in medicina, non è certo applicabile alle scienze speculative. Il Rosmini viziò dunque, senza volerlo, la teorica della visione ideale; e questa viziata e infetta dal suo connubio col psicologismo, dee portare il necessario frutto di questo fallace metodo, cioè il panteismo sotto la propria forma, ovvero lo scetticismo e il nullismo, che sono sostanzialmente

un panteismo mascherato, come altrove avvertimmo. E che la cosa sia così, e il difetto della dottrina rosminiana provenga dal psicologismo, l' ho già accennato, e mi è facile il provarlo con poche parole. Il psicologista, dovendo pigliar le mosse da un fatto suscettivo di analisi, da un fatto del senso intimo, della riflessione, della coscienza, non può alzarsi al di sopra dell' idea astratta dell' ente. La quale è di sua natura vaga universale, incompiuta, comunissima, applicabile a ogni realtà, e quindi a Dio, non meno che alle creature. Una tale idea è per sè stessa subbiettiva, e riducendosi ad una modificazione del proprio animo, non può somministrare una salda base al vero obbiettivo e assoluto. Perciò, se il psicologista aderisce strettamente alle condizioni di tale idea, e non si scosta dalla semplice analisi, egli dee riuscire al nullismo, e al dubbio universale. Tuttavia, siccome l'Ente concreto e assoluto è del continuo presente all' intuito, non può darsi che il psicologista, nel corso delle sue analisi, non abbia una cognizione confusa e quasi un sentore della obbiettività dell' Ente. Il che è ancor più agevole, se al dettato naturale della ragione si aggiunge quello delle tradizioni più venerande; come dee accadere al filosofo cristiano; e accadde segnatamente al Rosmini. Ora giunto a un tal segno, o il filosofo si risolve ad abbandonare il suo metodo, e a mettersi per la via dell' ontologismo, o egli continua ad essere psicologista, ma si adopera a stabilire l'obbiettività dell' ente, senza uscire dal preso cammino. Nel primo caso, egli non può fallire alla vera teorica nel secondo, volendo accoppiare al concetto dell' ente astratto la nota di obbiettività, è condotto logicamente a fare di quella sua astrazione una entità sussistente e reale. Ora l'ente astratto è unico, comunissimo, universalissimo, applicabile del pari a Dio e al mondo, al Creatore e alle creature. Dunque, se l'ente astratto è reale e sussistente fuori dello spirito, convien conchiudere che v' ha una sostanza unica, Dio e mondo ad un tempo, di cui tutte le cose sono semplici modificazioni. Vuolsi egli

evitare il panteismo? Non si può sortir l'effetto altrimenti, che separando l'obbiettività dalla sussistenza obbiettiva, e aprendo l'adito a tutte quelle ripugnanze, che abbiamo vedute.

L'ontologista, procedendo per l'opposto sentiero, riesce a un termine affatto diverso. Egli muove, non già dalla riflessione, dal sentimento, dalla coscienza, insomma da sè medesimo, ma dall' Ente stesso concreto e assoluto, che si rivela all' intuito. Non che salire dall' ente astratto e riflesso all' Ente concreto e intuitivo, egli discende da questo a quello. Ma come mai potrà egli trasferirsi di volo in Dio, e contemplarlo nella sua entità assoluta, senza partire da sè medesimo? Un tal prodigio, impossibile al pensiero umano abbandonato a sè stesso, viene operato dalla parola. La parola religiosa gli rivela Iddio; e glielo rivela, mettendo in atto la riflessione, e possibilitandolo ad afferrare col mezzo di un atto riflesso l'atto immediato dell' intuito, per cui lo spirito dell' uomo comunica direttamente coll' Ente assoluto. Così negli ordini naturali il verbo umano è mediatore fra lo spirito e Dio, come negli ordini sovrannaturali il Verbo increato è mediatore fra il genere umano e il celeste Padre. L'Ente assoluto, contemplato nella sua concretezza, si mostra all' intuito, come creante; imperocchè l' intuito, che in un atto primo afferra l'Ente, coglie in un atto secondo sè medesimo, come effetto dell' Ente, e apprende nel proprio animo, cioè nelle percezioni sensitive e obbiettive, che lo accompagnano e modificano, tutto il sensibile universo. Per tal modo lo spirito trova sè stesso in Dio, come causa creatrice, e il mondo in sè medesimo, come forza percipiente e conoscitrice; e il doppio ordine degli esistenti gli è rivelato dall' intuito della creazione, indiviso da quello dell' Ente creatore. La riflessione ontologica rappresenta fedelmente questo processo primitivo e essenziale dell' intuito colla doppia nozione del necessario e del contingente, la quale abbraccia tutta la formola ideale. Imperocchè il necessario essendo la ragione

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