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sempre agli equivoci. Che cosa vuol dire non essere propriamente Dio? Si può forse essere impropriamente Dio, senza essere una creatura, senza essere finito, creato, contingente, mutabile, temporario, relativo, e avere le altre doti opposte a quelle, che il Rosmini attribuisce all' ente ideale? E Dio può aver delle appartenenze, che siano distinte realmente dalla sua essenza?

Nell'esame dei passi surriferiti il lettore avrà chiesto a sẻ stesso più di una volta, perche il Rosmini siasi scostato dalla sentenza di tanti uomini valorosi, antiponendo di gittarsi in quelle strette, che abbiamo veduto, anzichè ammettere bonamente l'intuito dell' Ente reale, secondo la dottrina di santo Agostino e del Malebranche? Se per combattere lo scetticismo, e piantar il vero sopra una salda base, egli riconosce l'obbiettività dell' ente ideale, e le proprietà assolute, che lo contraddistinguono, perchè affermare da un lato che l'ente ideale è insussistente, e negar dall' altro, che sia Dio, quando queste due asserzioni si oppongono dirittamente alle altre parti della teorica, e sono così favorevoli agli scettici, così infeste allo scopo precipuo del religiosissimo autore? Il quale è troppo rispettivo e prudente, troppo dotato di pietà cattolica e di senno italiano, da avere eletto un partito così singolare, senza gravi ragioni. Nè il metodo psicologico, per cui procede, sarebbe bastato ad indurvelo; imperocchè, se bene un tal metodo non possa condurre oltre l'ente astratto della riflessione, non obbliga però chi lo segue a rigettare un dogma superiore, serbato nella tradizion della scienza. Il Rosmini non è di que' filosofi, che ripudiano le tradizioni religiose e scientifiche, delle quali anzi si mostra studiosissimo. Che se il psicologismo impedillo di levarsi scientificamente sino all' intuito dell' Ente assoluto, egli non avrebbe certamente ripudiato il dogma ontologico, tramandatogli dai nomi più riverendi della scienza cattolica, non avrebbe combattuta per questa parte l'autorità di uomini, ch'egli venera come maestri, se non vi fosse stato indotto da un senti

mento, che lungi dal meritar biasimo, è degno di grandissima lode. Il qual sentimento è la paura del panteismo, che gli apparve, come un corollario inevitabile dell'antico sistema. Egli non dissimula questo suo timore in vari luoghi delle sue proprie; e segnatamente là dove parlando del Bardili e dello Schelling, dice che «< il supporre... l' idea, che l'uomo ha di Dio, essere adeguata,

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porta in conseguenza un panteismo irreparabile 1. » Veramente i difensori dell' intuito diretto non hanno mai preteso che l'idea di Dio sia adeguata nel senso proprio di questa parola; ma egli è chiaro che il Rosmini accenna solo con tal voce all' opinione di quelli, che considerano l'ente ideale come concreto e sussistente, e non come schiettamente iniziale ed astratto, a tenore della sua teorica. Ora ha egli ragione di considerare il panteismo, come conseguenza logica dell' intuito ideale, secondo l'intendimento dell'antica scienza? Rispondo 1o che il panteismo risulta necessariamente dalla dottrina dell' intuito diretto, se questo intuito si fonda nel psicologismo, come ha fatto l'illustre Autore; il quale perciò ha dato prova di molta sagacità a penetrare questa conseguenza, e di animo pio e virtuoso a fare ogni opera per evitarla, a costo di avvilupparsi negli equivochi, nelle oscurità e contraddizioni inevitabili, di cui abbiamo dato un piccolo saggio. 2o Che la dottrina dell' intuito diretto, fondata nell' ontologismo, e ridotta al senso preciso, che emerge dalla formola ideale, non che favorire o produrre il panteismo, lo spianta dalle radici, e somministra la sola arme, con cui questo sistema funesto possa essere felicemente combattuto e conquiso. Proverò brevemente questi due punti, e con essi porrò fine a questa lunga nota.

Abbiamo veduto che l'illustre Autore stabili l'obbiettività dell' ente ideale, per precludere ogni adito allo scetticismo e al nullismo. Ma l'obbiettività porta seco di necessità la realtà e la

N. Sag., tom. III, p. 292, not. 1.

sussistenza; e se l'obbiettività concerne l'assoluto, la realtà e sussistenza, dee pur essere assoluta; tantochè il Rosmini, per essere coerente a sè stesso, avrebbe dovuto affermare che l' ente ideale è reale, e si mostra come reale e sussistente allo spirito. Supponghiamo per un istante che il nostro egregio Italiano abbia abbracciata questa opinione, e veggiamo quali siano le conseguenze, che ne derivano. L'ente ideale del Rosmini non è già quello, che si affaccia all' intuito diretto, ma quello, che si contempla dalla riflessione. Questo ente si presenta al nostro spirito, come universalissimo e comunissimo, e come tale conviene a ogni cosa, alle ragioni contingenti, come alle necessarie, alle creature, come al Creatore, senza nulla contenere in sè stesso, che determini la sua applicazione ad un oggetto piuttosto che ad un altro. Lasciamo parlare l'illustre Autore. « L'essere in sè... « è solo iniziale; di che avviene ch' egli sia d'una parte simi«litudine degli esseri reali finiti, dall' altra similitudine dell' « essere reale infinito, e si possa quindi predicare di Dio e delle «< creature, come dissero le scuole, univocamente; poichè nascon

dendoci i suoi termini, egli può attuarsi e terminarsi, sebbene « non certo allo stesso modo, in Dio o nelle creature 1. » Ora se quest' ente, così considerato, è sussistente e reale, se è Dio, se è la stessa essenza divina, qual è l' illazione, che se ne dee tirare? Che questo ente è Dio e mondo nello stesso tempo; che tutte le creature sono termini o modificazioni di esso, come sostanza unica, ch'esso è Dio e universo, benchè non allo stesso modo, perchè è Dio, come sostanza infinita, infinitamente terminata, e mondo, come complesso di modificazioni finite, come sostanza terminante nei sentimenti e nelle sensazioni, cioè in modi limitati, la somma dei quali forma a nostro riguardo il concetto dell' universo. Questa dottrina è schiettamente panteistica; ma è una conseguenza rigorosa del presupposto, che abbiamo fatto.

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« La tavola rasa è l'idea indeterminata dell' ente, che è in noi « dalla nascita. Quest' ente, che concepiamo essenzialmente, non « avendo alcuna determinazione, è come una tavola perfettamente uniforme, non ancora tracciata o scritta da carattere alcuno. << Ella perciò riceve in sè qualunque segno e impressione, che in <«<lei si faccia; il che vuol dire che l'idea dell' ente comune si «determina ed applica egualmente a qualunque oggetto, forma, « o modo ci si presenti, mediante i sensi esterni od interni. Adunque ciò che veggiamo fin dal primo nostro essere, non « sono caratteri; è un foglio di carta bianco, ove nulla era « scritto, e nulla quindi leggervi potevamo : questo foglio bianco « ha la sola suscettibilità (potenza) di ricevere qualunque scrit<< tura, cioè qualunque determinazione di esistenza particolare1. » Ora, se il foglio bianco è l'ente sussistente e assoluto, i caratteri che vi sono scritti, cioè tutte le cose che concepiamo, come reali, non possono essere se non modificazioni di quello, come sostanza unica.

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«Noi quando veggiamo l'ente idealmente, non veggiamo la «< sussistenza dell' ente (se non quella propria dell' ente ideale) : «<l'ente ideale adunque per noi non è che un progetto, un

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disegno di ente : quando proviamo de' sentimenti, allora ci accorgiamo di alcuni modi, limitati però, ne' quali quell' ente << in disegno si realizza : ma non veggiamo mai l'intera e asso«<luta realizzazione di esso ente, non veggiamo eseguito piena«mente il disegno che nell' ente ideale contempliamo... Gli enti «finiti non sono che l'ente ideale realizzato in un modo finito e << limitato Dio all' incontro è l'ente ideale realizzato pienissi«mamente. Nell' ente adunque realizzato pienissimamente, è « facile pensare che virtualmente si comprendano le realizzazioni « imperfette e limitate 2. » « Percependo i singolari uomini, noi li

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1 N. Sag., tom. II, p. 218.

2 Il Rinnov. della filos. del Mam. esam., p. 620, 621.

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abbiamo percepiti come enti, li abbiamo considerati, come « realizzazioni parziali dell' ente ideale indefinito e universale, « e però mediante questa relazione comune, come aventi una << natura comune: abbiamo in una parola percepito questa natura << comune indivisa dalla sussistenza di ciascheduno 1. » « L' essere « da noi intuito per natura è indeterminato, che viene a dire privo de' termini suoi; universale, in quanto che è atto a rice«< vere tutti que' termini, che egli non ha; possibile o sia in << potenza, in quanto che non ha un atto terminato ed assoluto, << ma solo un principio di atto: in somma si raccolgono in questa « sola osservazione (che ciò che noi veggiamo per natura, è la prima attività, ma priva de' termini suoi, co' quali solo ella si natura, e formasi una real sussistenza) tutte quelle qualità, che noi, nel « corso di quest' opera abbiamo attribuite all' essere in univer« sale, fondamento della ragione e cognizione umana. Se quest' « essere spiegando sè stesso più manifestamente innanzi alla «< mente nostra, dall'interno di sè emettesse la sua propria attività, e così si terminasse e compiesse, noi vedremmo allora « Iddio 2. » « L'essere, non veggendolo noi compito ed assoluto,

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gli è l'essere comunissimo, cioè un essere che può terminare « in infinite cose, o essenziali a lui, o anco non essenziali. Questi termini dell' essere da noi percepiti, sono le cose reali. Il « nostro sentimento, od una sua modificazione che noi proviamo, «è uno de' termini dell' essere da noi intuito naturalmente. Pel << sentimento adunque noi conosciamo le cose, o sia i termini « dell' essere stesso. Ma un medesimo sentimento viene e cessa, « e riviene quindi l'essere, il più delle volte, può replicare lo << stesso suo termine un numero indefinito di volte. Quando noi

abbiamo veduto l'essere terminato in un sentimento, noi « abbiamo percepito (mediante il senso), un essere individuale, « ed è ciò che chiamammo percezione individuale. Ma quando noi

1 Il Rinnov. della filos. del Mam. esam., p. 526.

* N. Sag., tom. III, p. 112, 113.

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