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idea sola, e quindi ad aprire il varco al nullismo, o al panteismo. Abbiamo già infatti veduto, che il Rosmini confonde l'idea d'ente con quella di esistente 1. Egli piglia quindi l'idea di ente come ugualmente applicabile a Dio e alle creature. « L'essere, » dic' egli, « ha due rispetti, in cui mirar si può, verso di sè, e « verso di noi. Lasciando interamente questo secondo rispetto, «e considerando puramente l' essere in sè, noi abbiamo trovato «che è solo iniziale; di che avviene, ch' egli sia da una parte << similitudine degli esseri reali finiti, dall' altra similitudine « dell'essere reale infinito, e si possa quindi predicare di Dio e delle creature, come dissero le scuole, univocamente; poichè "nascondendoci i suoi termini, egli può attuarsi e terminarsi, « sebbene non certo allo stesso modo, o in Dio o nelle creature3.» Ma se Iddio differisce dalle creature, solo in quanto lo stesso essere è terminato in diversi modi, chi non vede, che si dee essere nullista o panteista? Si è nullista, se si afferma, che questo essere ideale, in cui tutto l'essere consiste, escluda ogni realtà e sussistenza, come nei testi preallegati dell' Autore; si è panteista, se si dà a questo essere ideale la realtà, anzi una realtà assoluta, come fecero in gran parte gli antichi filosofi greci e orientali, e come vedremo aver fatto lo stesso Rosmini in altri luoghi, che recheremo più innanzi. E non è da maravigliare, che il sagace e religiosissimo scrittore, forzato dal suo metodo a scegliere fra gli opposti eccessi del nullismo e del panteismo, e avendoli del pari in orrore, si mostri vacillante fra le due sentenze, e sdruccioli tratto tratto dall' una all'altra, senza fermarvisi, per voler tenersi discosto da entrambe.

Il psicologismo, lo ripeto, è la causa di queste angustie, e di questi traviamenti filosofici. Chi procede per questa via, essendo

1 N. Sag., tom. II, p. 21 e al. passim.

2 Ibid., tom. III, p. 528, 529.

necessitato a muovere da un fatto della coscienza, non può levarsi al di sopra dell' idea astratta e riflessa dell' ente in universale questo è il più alto punto, a cui possa appiccare il filo de' suoi discorsi. Ora, se egli considera questo ente astratto, come sussistente, reale, assoluto, e lo deifica, egli è panteista; se lo tiene per una mera astrattezza, destituita di realtà, siccome d'altra parte, lo reputa per unico fonte della conoscenza, e non ha fuori di esso alcun puntello, a cui appoggiare il suo discorso, egli riesce di necessità al nullismo. Il solo spediente per evitare questo doppio scoglio è il metodo degli ontologisti. I quali, pigliando le mosse dall' Ente concreto e assoluto, trovano l'intelligibilità e la realtà suprema nel primo punto del loro processo; la quale intelligibilità e realtà si tragitta negli altri obbietti, non già per alcuna comunicazione emanatistica o panteistica, ma in virtù dell' atto creativo. Imperocchè l' Ente assoluto ci si manifesta, come creante; e perciò la percezione dell' esistente ci è data con quella dell' Ente, ed è figliata da essa, come l'esistente è prodotto dall' Ente creatore. Questa cognizione primitiva e intuitiva dell' Ente e dell' esistente non consiste già nell' applicazione di un concetto astratto, ma nell' apprensione immediata di un concreto; è la percezione nel senso della scuola scozzese. L'idea astratta è una notizia secondaria, che si acquista per opera della riflessione esercentesi su quell' intuito primitivo. Vedesi adunque che il Rosmini segue il processo di tutti i psicologi, che colle loro analisi destituite di dati ontologici, guastano la scienza dei principii, falsificano eziandio quella dello spirito umano, confondono la cognizione secondaria e riflessa colla cognizione primaria e intuitiva, e si tolgono i mezzi di risolvere adequatamente il loro prediletto problema dell' origine delle cognizioni. Niuno certo mostrò più ingegno del nostro valoroso Italiano in questa ricerca, nè trasse miglior partito dal psicologismo; che se egli, ciò non ostante, non colse nel segno, e non potè evitare le ambiguità e le contraddizioni, se ne dee solo incolpare il metodo da lui eletto.

Se l'ente ideale esclude ogni realtà e ogni sussistenza, e non v' ha niente di conoscibile, fuori di esso, la conseguenza rigorosa di questa dottrina è uno schietto nullismo. Ma il nullismo perfetto è un sistema troppo assurdo, da poter cadere anche per un solo istante in uno spirito assennato; perciò si suol velare per ordinario colle forme di quel realismo subbiettivo, che non se ne svaria per la sostanza, ma pare prima fronte plausibile e fondato. Il quale consiste a considerare il vero, il reale, l'ente, come qualche cosa di mentale, di subbiettivo, di proprio dell' animo nostro; qualunque sia la forma speciale, con cui si particolarizzi, e s'incarni il sistema. Tal è quello scetticismo dimezzato e relativo, che da Protagora fino ad Emanuele Kant regnò da principe in tutte le scuole eterodosse, e che regna ancora fra' razionalisti dei di nostri, quali siano del resto le loro parole e le loro promesse. Imperocchè essendo essi psicologisti, ripetendo la scienza dell' oggetto da quella del soggetto, e fondando il necessario sul contingente e l'assoluto sul relativo, sono costretti a subbiettivare tutte le cognizioni, e a considerare la verità, come l'espressione del proprio pensiero. Il Rosmini non potea evitar questo scoglio; e benchè, come uomo piissimo, egli si adoperi di obbiettivare il suo ente ideale, come vedremo fra breve; tuttavia la dialettica lo incalza, lo spinge verso l'abisso, dal quale non può salvarsi altrimenti, che ripugnando ai proprii dettati. Imperocche, se l'ente ideale non è, se non una mera astrazione, spogliata di realtà e di sussistenza, come potrebbe sussistere fuori dello spirito? O dunque un tal ente non si trova in nessun luogo, o è una mera appartenenza dell' animo umano. E già il Rosmini pare inclinato a questa sentenza, dove stabilisce che l'idea dell' ente è innata 1; imperocchè, sebbene nel nostro senso l'Idea si possa chiamare innata, senza pregiudizio della sua obbiettività, in quanto cominciò col primo atto del pensiero a risplendere allo spirito, tuttavia, quando

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ella è ridotta a un concetto astratto, non si può aver per ingenita, se non in quanto aderisce alla mente, come una sua modificazione. E se tal sia veramente la sentenza, non dirò già del Rosmini, ma di qualche luogo delle sue opere, lo giudicherà il lettore. Parlando egli dell' elemento comune, che si trova nelle cose, così discorre : « Ci sembra, considerando la materia già cognita, ch' ell' abbia in sè medesima qualche cosa di comunis«simo con tutte le cose: mentre questa qualità in quanto è co«<munissima è per lei acquisita e ricevuta dalla mente nostra, «è una relazione ch' ella ha colla mente, non reale in essa, ma << reale solo nella mente stessa 1. » Direte forse che questo elemento mentale non è l'idea dell' ente, ma il concetto relativo del comune, nascente da quella? Ma questa interpretazione non mi pare accordabile con ciò, che soggiunge l' Autore : « Il che non « essendo stato bastevolmente considerato da Aristotele, e da « altri tali, fu cagione, che s' avvisassero poter la mente procac «ciarsi l'idea dell' essere coll' astrazione di ciò, che era co<<<munissimo nelle cose (materia della cognizione), mentre anzi << la mente stessa era quella, che poneva questa qualità comu« nissima nelle cose (materia della cognizione,) e da esse togliendola, non faceva, che ritogliere il suo proprio; perocchè, come dissi, ciò che nelle cose v' ha di comune, non è altro, che un risultamento della relazione ch' esse hanno «colla mente intelligente 2. » Dunque la mente pone negli obbietti non solo la relazione del comune, ma la qualità comune, la quale non può esser altro che l'ente stesso ideale.

In un altro luogo, egli nega che l'ente ideale sia una modificazione della mente, e tuttavia afferma che risiede solo nella mente stessa. Questo passo mi pare importante, e benchè lunghetto, credo di doverlo porre tutto quanto innanzi agli occhi

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del lettore: « L'essere, come ci stà presente essenzialmente allo spirito, è incompleto: ..... Ora da simigliante limitazione si trae questa conseguenza, che quell' essere non mostra di sè "altra sussistenza, che nella mente, cioè che ci si presenta,

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come un oggetto alla mente, e nulla più. E qui conviene at<< tendere sottilmente, per non confondere insieme due cose al «tutto distinte. Altro è il dire un essere mentale, altro il dire «una modificazion della mente, quasichè quest' essere, che noi veggiamo non sia nulla più, che noi stessi modificati. Con«fesso che è alquanto difficile a distinguere queste due cose, e «che tale distinzione è quasi al tutto ignota ne' nostri tempi; ma «ella non è meno vera per questo, nè men rilevante. Io ripeto «ciò che ho tante volte detto: il filosofo non dee rifuggire alla vista de' fatti; dee ammetterli, ammetterli tutti, dee anche « analizzarli e riceverne di buon animo il risultamento: egli può ben dire, io non intendo; può maravigliarsene a suo grado; ma pure dee accettarli, e non presumere, che una cosa «sia nè più nè meno quale egli se l'è prefigurata poichè l'uomo non può impor leggi alla natura, ma riconoscerle qual sono, e istruirsene colla loro contemplazione altramente « non giungerà ad un vero sapere, ma piglierà oggi ciò, che « domani gli sfuggirà di mano, conosciuto come una sua svista, << una sciocchezza 1. » Queste osservazioni sono vere e sensate, e applicabilissime in ogni caso, salvo quando si tratti di una manifesta contraddizione. Imperocchè se altri dovesse ammettere delle ripugnanze, perchè gli paiono fondate sul fatto, la logica sarebbe ita. Si tratta adunque di vedere, se una cosa, la quale non ha sussistenza di sorta fuori della mente, qual si è l'ente ideale del Rosmini, possa essere altro, che una modificazione della mente stessa. Io sostengo, che l'affermativa in questo caso è espressamente contraddittoria. Al Rosmini pare il contrario; e vedremo ben tosto le sue ragioni. Del resto, non

1N. Sag., tom. III, p. 316, 317.

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