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elementi affatto diversi; giacchè l'equazione suppone identità. Ora, che medesimezza può avere il sensibile, come tale, coll' intelligibile? Se il sensibile fosse identico all' intelligibile, questo sarebbe inutile, e il sensibile si manifesterebbe da sè medesimo, come quello che sarebbe intelligibile di propria natura, e i sensisti avrebbero ragione. Se adunque l'intelligibile e il sensibile sono disformi, come mai potrà aver luogo una equazione fra l'uno e l'altro?

Il giudizio non può essere una equazione fra due elementi diversi, se non in quanto essi hanno qualcosa di comune, cioè d'identico, fra loro. Ora questa identità non può consistere altrove, che nell' intelligibile. Bisogna adunque che i due termini del giudizio partecipino dell' intelligibile, e siano intellettivi, acciò l'identità, e quindi l'equazione abbia luogo. Ma l'apprensione sensitiva non è un elemento intellettivo. Dunque l'unione della mera apprensione sensitiva coll' idea dell' ente possibile non farà mai un giudizio. Potrebbe alcuno rispondere che, secondo il Rosmini, il giudizio succede, in quanto lo spirito avendo sempre innanzi a sè l'idea dell' ente, ravvisa in essa i sensibili, onde riceve le impressioni, e vedendoli nell' ente, conosce che sono davvero, e forma il giudizio. Ma in tal caso, anche i fantasmi, foggiati di proposito, o nati spontaneamente dalla virtù immaginativa, dovrebbero aversi per cose reali, giacchè si scorgono pure nell' ente, di cui abbiamo assiduamente l' intuito. Perchè dunque non crediamo alla realtà loro? Egli è chiaro che non basta veder le cose attraverso il concetto dell' ente, per chiarirsi della loro sussistenza, ma fa d'uopo applicar loro cotal concetto, per un espresso e positivo giudizio. Ora io chieggo, qual sia la

regola, che determina quest' applicazione. Forse tal regola risiede nell' impressione esterna e sensata, che differisce dalla specie interna e fantastica? Ciò non si può dir, senza circolo; giacchè la prima di queste impressioni non differisce dalla seconda, se non in quanto l'idea di esistenza all' una, e non all'altra viene applicata. L'applicazione di questo concetto diversifica le due impressioni; tanto è lungi, che la diversità dell' impressione determini l'applicazion del concetto. Oltrechè, per aggiustare il concetto dell'ente all' impressione sensibile, bisogna conoscerla; imperocchè a caso e alla cieca non si può fare un' applicazione; ma se il sensibile è già conosciuto, l'idea vi è già applicata, e sarebbe inutile e ridicolo l'adattargliela nuovamente. Insomma, non si può immaginare un paragone tra l'intelligibile e il sensibile in universale, nè tra il sensibile reale e il sensibile fantastico, per poterne conchiudere che l'intelligibile conviene a quello e non a questo, senza supporre che il sensibile, qualunque siasi, è un concetto; perchè il paragone può solo aver luogo tra due concetti, e fuori di essi è affatto inescogitabile. Ma il concetto del sensibile, come sensibile, ripugna, giacchè quel che è sentito non può soggiacere, come tale, all'atto cogitativo. Il sensibile non può esser pensato altrimenti, che nell' intelligibile. Se dunque la cosa sentita è un concetto, il giudizio, che la riunisce coll' idea dell' ente, è già fatto: se non è un concetto, il paragone e il giudizio non possono succedere. Nel primo caso, si ricade nella petizion di principio: nel secondo, si suppone un giudizio formato con un solo concetto, cioè un giudizio, che non è giudizio.

Inoltre. L'illustre Autore vuole con questo giudizio spiegare il concetto di esistenza, ch' egli chiama sussistenza delle

cose. Ma come può nascere questa idea dal detto giudizio, anche supponendo la possibilità di esso? Da un lato occorre soltanto una impression sensitiva; dall' altro si ha pure il concetto dell' ente possibile. S'uniscano insieme i due termini; che ne dee risultare? L'idea di una impressione possibile, e nulla più. I due termini non possono dare quello, che non hanno in sè. Fra l'esistenza e la possibilità dell' esistenza corre un intervallo infinito, che non può essere superato, se non dall' onnipotenza creatrice. Da che dunque emerge il concetto di esistenza? Dal possibile? No certo. Dall' impressione? Ma l'impressione non ha nulla d'intellettivo, non è un concetto, e non può produrne alcuno, salvochè si approvi l'ipotesi dismessa e ripugnante del sensismo, dalla quale il Rosmini si mostra alienissimo. Dall' accozzamento del possibile col sensibile? Ma se ciascuno di essi in separato non può dare quel che non ha, nol potranno nè anco riuniti.

Il Rosmini accenna in alcuni luoghi che l'idea di sussistenza, come idea, è il mero concetto dell' ente possibile; e che in quanto se ne distingue, non è una idea, ma un giudizio. Ora egli è chiaro che la voce sussistenza o esistenza non esprime un giudizio, se non in quanto significa un concetto. Bisogna dunque spiegar l'origine del concetto. Un giudizio si può chiamar concetto, in quanto è una idea composta, che contiene le nozioni espresse separatamente dai termini della proposizione. Ora quali sono i termini del giudizio rosminiano? Il sensibile e il possibile, e nulla più. Ma siccome abbiamo testè veduto che questi due termini riuniti insieme non possono procreare l'idea di esistenza, questa non può essere nè meno un giudizio.

Bisogna anche guardarsi dal confondere l'idea di sussistenza colla sussistenza stessa della cosa. Parmi che il Rosmini apra l'adito a questo grave errore, dicendo che quando si concepisce la sussistenza d'una cosa, l'elemento intellettivo è la sola idea dell' ente possibile. Se ciò fosse vero, ne seguirebbe che il concetto proprio, espresso dalla voce sussistenza, sarebbe la sussistenza medesima dell' oggetto. Imperocchè chiunque vede che i vocaboli ente possibile e sussistenza non sono sinonimi e che quindi hanno un significato almeno in parte diverso. Ora in che consiste il divario? Certo nell' idea del reale, che viene espressa dalla seconda parola, non dalla prima. Se adunque il concetto del reale non fa parte dell' elemento intellettivo, ma della cosa, ne segue che il concetto del reale e il reale sono tutt' uno; il che è impossibile a pensare. Eppur su questa confusione si fonda il discorso dell' illustre Autore. Imperocchè affermando che la persuasione della sussistenza dei corpi è opera di un giudizio composto del concetto di ente possibile e dell' impressione sensitiva solamente, egli suppone che la sussistenza e l'idea della sussistenza siano una cosa medesima. Ma siccome noi intendiamo ciò che vien significato dalla voce sussistenza, egli è chiaro che il concetto come concetto, e la cosa significata si diversificano. Ma come si possono diversificare, se il solo elemento intellettivo, che s'intrometta in questo negozio, è il concetto dell' ente possibile?

Il punto che abbiam per le mani accenna a una quistione gravissima e difficilissima, di cui la filosofia moderna ha dismesso perfino il titolo; cioè, onde nasca e in che risegga il concetto della concretezza e individualità delle cose? Imperocchè, se ogni concetto è generico, come crede il Ros

mini, come possono concepirsi il concreto e l'individuo? L'illustre Autore, per uscir d'impaccio, fu costretto a negare che l'idea della concretezza e della individuità sia una vera idea, riputandola per un mero giudizio. Ma questa soluzione, come apparisce dal sovrascritto discorso, non si può far buona in alcuna guisa. L'uomo ha un vero concetto della realtà individuale, cioè dell' esistenza. Or come può acquistarla? Forse colla sensazione o col sentimento? Ma queste facoltà ci rivelano soltanto modificazioni e qualità subbiettive. Colla percezione degli Scozzesi? Ma tal percezione sola non basta; perchè ella non ci rivela le forze, cioè le sostanze e le cause create, a cui le esistenze finalmente riduconsi. Coll' idea del possibile? Ma il possibile non può dare il reale. Con astrazioni di un altro genere? Ma le astrazioni seguono la nozione del concreto, non la precedono; presuppongono esso concreto, e non possono procrearlo. Egli è dunque d'uopo supporre che il concreto e l'individuo si conoscono, mediante un intuito speciale, diretto e analogo alla percezione scozzese; da cui però differisce, in quanto ci rivela, non la sola corteccia, ma la sostanza e realtà delle cose. Mi contento qui di accennare la soluzione del quesito, che dichiarerò fra poco, acciò niuno possa inferire dal discorso sin qui fatto, che io voglia derivar l'idea di sussistenza da quella dell' Ente reale senza più, perchè ho sostituito il reale al possibile, come oggetto immediato del conoscimento intuitivo. Questo processo sarebbe cattivo, come apparirà in breve, e condurrebbe diritto al panteismo. Noi vediamo veramente ogni cosa nell' Ente reale, presente alla mente nostra; ma non è questo il concetto immediato, da cui deduciamo l'esistenza effettiva degli oggetti creati. Imperocchè, siccome l'Ente intuito non è

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