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volta mi parve assolutamente necessario alla chiarezza, o trattandosi di alcune considerazioni, che mi sembrano importantissime, e da poter essere replicate, non senza frutto.

La semplicità è la seconda dote, che dee proporsi chi scrive; senza la quale è anco difficile il conseguire la prima; giacchè la ricercatezza falsifica ed annebbia i concetti. Ella varia, secondo i diversi generi di stile, e può essere maggiore o minore, proporzionatamente al tema, che si ha per le mani. Nelle composizioni didascaliche, com'è in gran parte l'opera presente, vuol esser somma: lo stile loro dee scorrer piano, facile, naturale, e sfuggire ogni ornamento disdicevole al tenore ordinario del conversare. Io mi sono adoperato di essere semplicissimo, e ho studiato nella proprietà dei vocaboli ; nella quale consiste gran parte di quella eleganza, che è conceduta, anzi prescritta, allo stile insegnativo. Non ho uccellato ai fiori e agli artifizi rettorici, che piacciono oggidì, non perchè io non abbia potuto, ma perchè non ho voluto. Posso dirlo, senza temerità, nè arroganza; giacchè ciò che oggi chiamasi eleganza, ed anche eloquenza, è un magisterio, di cui ciascuno è capace, ed è spesso men facile il cansarlo, che il metterlo in opera. Metafore mal prese, iperboli sperticate, imagini triviali, arguzie, epigrammi, romori, gonfiezze, stiracchiature,

<< ultimi corollari. E questi sono i voluminosi; e in rapportarli è lecito « anzi debito trasandare moltissime cose, cioè dire tutto l'altrui. Altri << sono che non vogliono gravare l'ordine de' dotti di più fatica, nè « obbligarli che per leggere alcune poche lor cose, abbiano a rileggere «le moltissime che hanno già lette in altrui, e costoro mandan fuori << alcuni piccioli libricciuoli, ma tutti pieni di cose proprie. Io sonmi « studiato essere in questa seconda schiera; se l'abbia conseguito, il giudizio è de' dotti. » Op. lat. Mediol. 1855, tom. I, p. 102.

sdolcinature, capriole, salti, capitomboli, niuna proprietà nelle voci, niuna sobrietà negli ornamenti, niuna aggiustatezza nelle figure, stile poetico in prosa e prosaico ne' versi, cioè prosa rimata o furibonda, sono i pregi, che rendono caro chi scrive, e lodato dai più. Lo scriver semplice, oltre all' esser disprezzato per sè stesso, fa parere le cose, che si esprimono, comuni e volgari, ancorchè siano pellegrine e nobilissime tanto che si può dire che lo scriver bene al dì d'oggi in Italia nuoce assaissimo alla fama. Chi vuole rimanere oscuro, usi uno stile semplice e puro, rimoto da ogni affettazione: adoperi quell' arte pellegrina, che non si scuopre; e per quanto siano del resto pregevoli le sue opere, potrà averle per morte prima che nascano. Quanti sono, verbigrazia, gl' Italiani, che conoscano, e fra' pochi conoscitori, che apprezzino, le Lettere di Pamfilo a Polifilo? Le quali, per la dottrina, sono forse l'opera più giudiziosa e profonda che siasi divulgata, onde vendicare alla Toscana il giusto possesso, e le origini della nostra lingua: per la forma, risplendono fra le prose italiane più perfette di questa età. Trovi in esse una semplicità tale, che non si può immaginar la maggiore; un sapor tutto greco; una facilità inimitabile: puoi applicarvi ciò che Cicerone diceva dei Comentarii di Cesare : « Nudi sunt, recti et venusti, omni « ornatu orationis, tanquam veste detracto. Sed dum voluit « alios habere parata, unde sumerent.... ineptis gratum for« tasse fecit, qui volunt illa calamistris inurere; sanos qui<< dem homines a scribendo deterruit 1. » Onde non è meraviglia, se il disadorno e semplicissimo Cesare fosse chiamato da Tacito summus auctorum 2. Ma s' egli è credibile che

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pochi ai tempi di Tacito concorressero in questa sentenza, io non so se oggi in Italia si trovino dieci letterati, che siano in grado di misurar l'altezza del Biamonti o del Leopardi, maravigliosi scrittori, che in un secolo scorrettissimo e leziosissimo, seppero porgere, scrivendo, una imagine della forte e schietta antichità. L'uso odierno di poetare e scagliare filosofando, non pur nei concetti, ma eziandio nella dicitura, è venuto a noi di Francia, dove fu recato dalla Germania. Non voglio definire, se cotal foggia di stile sia buona o rea nelle lingue teutoniche, il cui genio, tenendo più dell' orientale, può forse accomodarsi di tali modi, frequenti negl' idiomi di Oriente, ed ivi comuni a ogni genere di dettato. Ma certo essa è affatto contraria all' indole delle lingue nate dal latino, e specialmente della nostra, dove il proseggiare in tal modo, sovrattutto nelle materie scientifiche e filosofiche, è ridicolo e insopportabile a chi non ha affatto perduto il giudizio. Parti essenziali dello stile scientifico sono la semplicità, la chiarezza, la precisione. Quei concetti vaghi, aerei, intangibili, inetti ad essere contornati, scolpiti, espressi con distinzione e chiarezza, e non possibili a rendersi con una formola schietta e precisa, sono cosa poetica, non suppellettile dottrinale, e debbonsi cessar dalla scienza. L'idea filosofica vuol essere delineata schiettamente, vuol essere incarnata, posta in rilievo, e mostrata di faccia; non accennata solo come gli abbozzi, nè messa in iscorcio e sfumante, come i profili e i lontani delle pitture. L' Alighieri nelle sue opere dottrinali, il Cavalca, il Passavanti, il Machiavelli, il Gelli, il Caro, il Casa, il Castiglione, lo Speroni, il Vettori, Bernardo Segni, Marcello Adriani, Torquato Tasso, Giambatista Doni, il Galilei, il Bartoli, il Pallavicino, il Redi, lo Spallanzani, il Gravina, Francesco Maria Zanotti, Gasparo Gozzi, e altri, che

sarebbe troppo lungo l'annoverare, ci lasciarono buoni modelli, talvolta stupendi, di stile insegnativo e scientifico, applicabilissimo alle cose di filosofia: nel quale non trovi un' ombra delle moderne eleganze; trovi bensì quasi sempre una mirabile proprietà, e talvolta il grazioso atticismo, la nobile urbanità degli antichi, e un sentore di quella divina fragranza, che si respira negli scritti di Tullio e di Platone. E con questa patria ricchezza di sommi esemplari, tu ricorrerai ai Tedeschi e ai Francesi, per aver modelli di elocuzione filosofica, quasichè la nostra lingua, facondissima in ogni genere, sia muta o balbettante per le sole verità razionali? E dirai, come usano alcuni, ch'essa non si piega alle dottrine scientifiche, non è capace di quella facondia, che stà bene alle volte eziandio nelle filosofiche e civili composizioni? Che non ha i vocaboli e le frasi opportune? Che non ammette la precisione e la limpidezza? Che rifiuta la semplicità dell' andamento analitico, quando occorre, perchè sa innalzarsi, se vuole, al processo artifizioso della sintesi? Che infine un idioma così potente e moltiforme non è suscettivo di quei pregi, che si ammirano nel francese; e che è degno di essere scacciato dalle accademie e dalle scuole, come innanzi all' Alfieri molti volevano sbandirlo dalle tragiche scene?

La terza dote richiesta in qualsivoglia genere di scrittura è la purità, che consiste non tanto nelle voci e nelle frasi, quanto nel loro collegamento, nel giro delle clausole, nel colore totale dell' elocuzione, e rende tutte queste parti conformi al genio nazionale e proprio della lingua. Ogni idioma ha la sua indole particolare, cui non può dismettere, senza corrompersi, senza lasciar di essere quello che è, e diventare un altro. Non ne segue però che sia im

mobile e incapace di ampliarsi e di perfezionarsi; ma bensì che dee farlo in modo conforme alla propria natura. Al quale effetto bisogna che ogni aggiunta che vi si fa, ogni nuova forma che vi s'imprime, nasca dal didentro e non dal difuori, sia un' esplicazione interiore, anzichè un' accessione estrinseca, e rampolli spontaneamente dalla sua essenza. Se una voce o frase nuova è veramente necessaria, sarebbe pedanteria l'escluderla: si può pigliar donde occorre ; purchè sia tale, che per la sua indole e per la consuetudine delle orecchie degli uomini, possa incorporarsi coll' antico idioma, come le particelle nutritive, che s'immedesimano col corpo umano, e diventano la sua propria sostanza. Dicasi altrettanto delle varie e nuove forme di stile, di cui la favella è capace. Ogni lingua contiene potenzialmente una infinità di maniere, che si vanno successivamente esplicando, per opera del popolo e degli scrittori. Il trovare nelle viscere dell' idioma corrente una forma novella, stata finora nascosta a tutti i parlanti e scriventi, e produrla e metterla in atto, è privilegio de' sommi scrittori ; l'eccellenza dei quali consiste nell' attuare successivamente le potenze di una lingua. Se all'incontro chi detta vuole imprimere nella favella una forma, che virtualmente non vi si contiene, invece di riuscir ottimo, diventa pessimo; e quando al suo tentativo prevalga il buon giudizio dei dotti e del pubblico, egli è ben tosto sprezzato, come accadde ai secentisti e ai gallizzanti del secolo scorso : dove che accadendo il contrario, e l'innovazione passando in uso, l'idioma perisce. Insomma la lingua è un tutto organico, che non può ampliarsi e abbellirsi, se non per un moto interiore e conforme alle proprie leggi : non può giovarsi delle aggiunte, se non in quanto consuonano al suo genio e fanno con esso tutto un corpo. Queste considerazioni, come ognun vede,

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