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il Chateaubriand essere un génie plus éclatant dell' Alfieri 1, non che sdegnarmene o stupirmene, trovo che, come Francese, ha ragione; mi stupirei piuttosto, se i rivieraschi della Senna la pensassero altrimenti. E quando i letterati, che abitano sulle sponde della Giarretta, del Garigliano, del Tevere, dell' Arno, del Po, mettessero mano a voler provare il contrario, e a scrivere lunghi articoli sul Chateaubriand, e sul romanzo di René, livre incomparable pour la profondeur et la poésie 2, avrebbero un grave torto. Io bramerei che l'illustre Autore avesse osservato la stessa riserva, e si fosse astenuto dallo spendere tre letture consecutive per mostrar che l'Alfieri fu una spezie di gradasso politico, e un copista del teatro francese. Noi non sapremmo veramente che Vittorio Amedeo secondo, il quale eut plus d'une fois l'honneur d'être battu par Catinat, accrebbe i suoi stati, conquistando l' isola di Sardegna; che la langue habituelle du Piemont est un italien un peu corrompu fort semblable à l'italien de Venise ; che l'Alfieri, introdotto al cospetto di Pio sesto, « fit une grande témérité, il << baisa la main du pape, privilége qui n'est réservé qu'aux car« dinaux ; » che dopo i suoi primi studi, pour assurer sa gloire,

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Ibid., part. 2, leçon 9. Gli autori dell' Encyclopédie nouvelle c'insegnano che l' Alfieri nella prima metà della sua vita scrisse in piemontese;

« car il n'a

«vait d'abord d'autre idiome pour exprimer sa pensée, que celui du Piémont sa

patrie; et ce fut dans l'idiome de la Toscane, où se parle l'italien le plus pur,

« qu'il voulut écrire ses œuvres. » (Art. Alfieri, tom. I, p. 285.) Il che sarebbe presso a poco, come se altri dicesse che Giovanni Racine non volle scrivere le sue tragedie nel dialetto della Guascogna, ma che elesse di dettarle nell' idioma francese, assai più puro di quello.

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Ibid., Part. 2, leç. 9. L'Alfieri facendo il racconto di questa udienza, dice che Pio non acconsenti ch' egli procedesse al bacio del piede; « egli medesimo anzi rialzandomi in piedi da genuflesso che io m' era; nella qual umil positura sua Santità si compiacque di palparmi come con vezzo paterno la guancia, » (Vit. Epoca 4, cap. 10). Narra pure il bacio del piede fatto a Clemente XIII, bel vec

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volle condursi in Francia; che il sequestro de' suoi libri lo invaso

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de la colère la plus implacable et la plus poétique qui soit "jamais entrée dans l'âme d'un homme depuis feu le Dante 1; » che « Alfieri, formé par les exemples de la France, imitateur de la tragédie française du dix-septième siècle, disciple des opinions « et de la philosophie du dix-huitième, » è cosa francese (nous appartient à double titre) per l'immaginativa e il ragionamento; che « il n'alla jamais plus loin que le théâtre français; » che copiò i Francesi senza confessarlo, e specialmente il Corneille, da cui tolse « ce dialogue si vif et si coupé, cette forme si brusque «<et si rapide, ces vers dont la poésie italienne frémit, qui sont « coupés, fendus en deux, par une réplique soudaine et violem<<ment alternée; » che si può esitare (j'hésite toujours) à le croire né poëte dramatique; che « ses pièces sont toujours des tragédies françaises avec les confidents de moins et la république de plus; » che « lorsque Alfieri, prenant le cadre de la tragédie française pour le type universel, se borne à mettre des monologues à la place des confidents, et à supprimer les récits à la « fin des pièces, sans les épargner ailleurs, aucune innovation « réelle ne suit cette espèce de réforme de détails; » che « quand «Alfieri s'est fatigué de ses éternels confidents, sur l'épaule

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desquels le prince s'appuie, et qui sont là pour écouter de longs récits, en faisant de temps en temps une petite réflexion, « afin de donner au prince le temps de reprendre haleine et « d'achever son histoire, quand au lieu de ces entretiens com«modes, il laisse un prince tout seul sur le théâtre, et l'oblige de «< se raconter à lui-même les choses qu'il a faites et les sentiments « qu'il éprouve, » non vi ha novità nè progresso, anzi peggio, perchè « peu de princes, à chaque occasion, se promenant seuls « à grands pas, disent tout haut leurs pensées et leurs affaires,

chio e di una veneranda maestà (Ibid., ep. 3, cap. 3). Egli è lecito il non avvertire o dimenticare queste minuzie, ma non il menzionarle a rovescio.

1 Loc. cit., leçon 9.

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« comme un poëte récite ses vers; » che « Horace ne voulait pas qu'il y eût quatre personnages parlant à la fois sur la scène; mais il n'aurait pas exigé du poëte de n'en mettre que quatre « dans toute une tragédie, » e che per aver ignorata questa profonda distinzione, e creduto che Orazio esigesse la quaternità dei personaggi, l' Alfieri presque toujours ne mise solo quattro nelle sue tragedie; che « dans les sujets mythologiques, Alfieri, plus imitateur des Français que des Grecs eux-mêmes, n'a pas égalé ces modèles de seconde main qu'il avait trop suivis1; » che «< son théâtre n'est que le théâtre français, je ne dirai pas épuré, mais rétréci; » che nel fatto della congiura de' Pazzi « le principal conjuré était Salviati, l'archevêque de Florence; le principal assassin était le prêtre Stephano; » che l' Alfieri « était l'homme en qui éclatait le plus la philosophie française du dix-huitième siècle 2; » e che finalmente l'Oreste e il Saulle debbono essere le tragedie più mediocri del nostro tragico, poichè il professor francese, che si propone di dar un concetto adequato del teatro di lui, e ne chiama a rassegna i principali componimenti, non fa pur la menoma menzione di esse 3. Io non mi accingerò a vagliare queste belle sentenze, che sarebbe materia troppo aliena dal mio lavoro e da non venirne a capo in una nota; oltrechè io spero che un valente Italiano, mio amico, in cui il purgato giudizio pareggia la soda erudizione, non lascerà passare, senza risposta, gli errori del sig. Villemain sulle lettere italiche, e mostrerà che, se il gregge servile degl' imitatori fu

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1 Loc. cit., leçon 10.

* Ibid., leçon 11.

Che cosa direbbero i Francesi di un critico italiano, che discorrendo del teatro di Giovanni Racine e di Pietro Corneille, non dicesse una parola dell' Atalia, nè del Polieuto?

* Fra le curiosità, che questo scrittore può somministrare al divertimento degl' Italiani, non bisogna dimenticare il suo giudizio sull' Apologia di Lorenzino de' Medici, riputata da lui una froide et emphatique déclamation (Journ. des scav., septemb. 1838, p. 558 ). Ciascun sa che i nostri migliori, più squisiti e più inge

pur troppo abbondante nella nostra penisola, non cessò mai del tutto la generazione dei forti e liberi Italiani, fra' quali negli ultimi tempi niuno può sovrastare o pareggiarsi a Vittorio Alfieri.

Prima però di terminar questa annotazione, voglio racconciare il gusto al lettore con due righe di un' opera italiana testè divulgata, che giunge in questo punto alla mia notizia. Cesare Balbo, osservando che il Piemonte è una spezie di Macedonia o Prussia italiana, quasi Fiorenza del secolo decimottavo, uno stato, un popolo, di cui fu lunga, lenta e rozza la gioventù, aggiunge: «< E « tanto è vero esser l'attività e la dignità dello stato solito motore « dell' attività e dignità delle lettere, sola efficace protezione di « esse, che allora finalmente, » cioè quando fu libero dalla onnipotenza spagnuola, « entrò il Piemonte nella letteratura italiana; « ed entrovvi gloriosamente con Alfieri e Lagrangia.» Dopo aver quindi avvertito che il culto di Dante risorse principalmente, per opera dell' Alfieri e del Monti, così discorre di questi due poeti : « Il primo recando dalla provincia per lui aggiunta all' Italia letteraria, la sua non so s' io dica, forza o rozzezza o durezza «< paesana, restaurò forse la vigoria di tutta la letteratura; e « restaurò certo il culto di Dante. Era anima veramente Dantesca.

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Amori, ire, superbie, vicende di moderazioni ed esagerazioni, «<e mutazioni di parti, tutto è simile nei due. Quindi l'imitazione « non cercata, ma involontaria, sciolta ed intrinseca. Il Monti

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poi fu più ingegno, che animo Dantesco; e le mutazioni di lui « furono più d' arrendevolezza, che d'ira. Quindi l'imitazione più esterna; nella forma sola e nelle immagini1. » Queste poche

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gnosi critici tengono tale Apologia per un capolavoro di eloquenza, a cui poche opere antiche o moderne si possono nel suo genere pareggiare. Vedi fra gli altri il Giordani (Lett. al Capponi. Antolog. fior. 1825), e il Leopardi (Op. mor. Firenze, 1834, p. 215).

1 BALBO, Vita di Dante. Torino, 1859, lib. 2, cap. 17, tom. II, p. 445, 444, 445.

parole dicono assai più intorno al Piemonte e all' Alfieri che le tre verbose lezioni del professor parigino; e se ne può ritrarre quanto ragionevolmente il grande alunno di Dante venga chiamato copista del Corneille, e imitator della Francia. E ho voluto citarle, così per la loro verità, come per aver occasione di menzionare un'opera degnissima; imperocchè fra le scritture recenti e nostrali, che io conosco, ce ne sono molto poche, così belle, così instruttive, così sapienti, così piene di sensi nobili e veramente italiani, come la Vita di Dante, scritta da Cesare Balbo.

NOTA 29.

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Renato Descartes dice che « la première et la principale cause « de nos erreurs sont les préjugés de notre enfance 1. È egli vero? Nol credo. Nell' infanzia v' ha il germe dell' errore e del vizio, ma chiuso e non ancora esplicato : v' ha un' innocenza di spirito, come di costumi, una beata ignoranza del falso e del male. Ben s' intende ch' io parlo di quella età, che più propriamente chiamasi puerizia, nella quale la ragione comincia a entrare in esercizio, e non della età precedente, nella quale l'uomo, per ciò che spetta all'attualità delle sue potenze, non trascende ancora l' indole sensitiva dell' animale. Nella puerizia v' ha ignoranza, anzichè errore. Ciò che il fanciullo afferma determinatamente e positivamente, secondo i dettami dell'animo proprio, è vero. E se talvolta cade in errore, egli lo abbraccia per lo più solamente in modo perplesso, vago, indeterminato, e quasi una impressione confusa, la quale è più tosto ignoranza che altro, e comincia solo a diventar errore nell' adolescenza o nella gioventù, quando l' assenso, che le si porge, è intero, positivo, perfetto, come opera della riflessione e della deliberazione. L'errore infatti non è se non la confusione di una mezza cognizione con una cognizione intera, o vogliam dire, della cognizione coll'

1 V. OEuv., tom. III, p. 112 seq.

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