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« entre plusieurs choses tout à fait inconnues et incertaines, en « choisir une et s'y déterminer, et après cela s'y arrêter aussi fermement, tant que nous ne voyons point de raisons au « contraire, que si nous l'avions choisie pour des raisons certaines et très-évidentes... Mais où il ne s'agit que de la contemplation « de la vérité, qui a jamais nié qu'il faille suspendre son jugement « à l'égard des choses obscures, et qui ne sont pas assez distincte<<ment connues 1? » Queste considerazioni ci additano che la risposta precedente era solo una semplice condiscendenza verso il P. Mersenne, poichè si accordano perfettamente colla dottrina della morale provvisoria, e delle idee chiare, a cui quella ripugna. Se esse si accoppiano alle altre avvertenze fatte di sopra, sarà temerario il conchiuderne che l'autore apparteneva a quella scuola di religiosi apatisti, o come oggi si suol dire, d'indifferentisti, ch' era già si estesa nel secolo sedicesimo e nel seguente, e che velava con sagace politica e coll'osservanza delle pratiche religiose, una spezie di Socinianismo, e talvolta una miscredenza assoluta? E infatti, come altrimenti interpretarle ? A che proposito distinguere fra l'uso della vita e la contemplazione del vero, fra la necessità di governarsi, operando, coi verisimili, colle incertezze, e l'evidenza richiesta dalla mera cognizione, se non per inferirne che nelle cose di religione bisogna contentarsi del probabile, dell' incerto, dello sconosciuto, come nella pratica; che non si richiede a quella più che a questa, l' assenso interno dell' animo, ma solo la conformità delle azioni; giacchè tale conformità è sola prescritta e sola possibile, quando si tratta di cose incerte o al più probabili, e l'obbligo di sceglierne una, di determinarvisi, e di abbracciarla fermamente nella vita operativa, non può concernere la persuasione dell' intelletto? Che se, trattandosi della contemplazion del vero, si dee sospendere il giudizio sulle cose oscure, come mai tal contemplazione sarà possibile riguardo alle verità arcane della religione; o come, senza di essa, potranno consistere la fede cattolica,

1 Ibid., p. 458, 459.

e la professione della vita cristiana, la qual abbisogna certo delle opere, ma è pure essenzialmente contemplativa?

Un opponitore anonimo scriveva nel 1647, quasi negli stessi termini del P. Mersenne, e trovava incompatibile la prima regola del Metodo colla credenza degli arcani rivelati1. Che risponde il Descartes? Egli comincia ad entrare in teologia fuor di proposito, e dice che si può credere anco alle cose oscure, mediante il lume della grazia. Ma se il filosofo avesse saputo che cos'è la grazia, non avrebbe ignorato che essa può bene suggerire, illustrare, avvalorare le ragioni del credere, ma non può costituirle; altrimenti la fede non si distinguerebbe dal fanatismo o dalla superstizione, e l'ossequio cristiano non sarebbe ragionevole. Se le ragioni, che comprovano i dogmi della fede non fossero credibili per sè stesse, vale a dire se non fossero vere ragioni, la grazia divina non potrebbe mai convalidarle. L'intento, a cui mira questo dono celeste, non è mica di dare alle verità da credersi un valore obbiettivo, di cui esse manchino intrinsecamente, ma di abilitare l'animo a riceverle, a gustarle, a sentirne il pregio e l'efficacia, diradando in parte le tenebre dell' intelletto, e domando gli affetti ribelli, che ostano a quella tranquilla considerazione, e a quell' amoroso amplesso del vero, in cui è riposta la perfetta fede. Ma quel cenno teologico del Descartes è solo un diverticolo; imperocchè l' oppositore avendogli detto : « Vous êtes chrétien, et même, comme vous pensez, orthodoxe, à qui la « sainte Écriture ordonne d'être toujours prêt de rendre raison de « sa foi3 ; » egli risponde dicendo che ciò nol concerne : ne me regarde point. Come, o mio buon Cartesio? Il render ragione e testimonio della propria fede, quando altri può rivocarla in

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dubbio, non è un affare, anzi un dovere dell' uomo cristiano e cattolico? Il rimuovere lo scandalo, che può nascere dai propri scritti, quando si possono interpretare in senso sfavorevole alla religione, non è un debito di coscienza? Certamente convien dire che non sii cattolico nè cristiano, o che non sappi il catechismo. E tu discorri in modo, che si può stimar vero l' uno e l'altro.

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In prova di questo punto e per vedere, che fondamento si debba fare nell'erudizione teologica del Descartes, specialmente in proposito di grazia, leggasi una sua epistola ad un Chanut, della quale mi contenterò di citare le parole seguenti: « Je ne fais « aucun doute, que nous ne puissions véritablement aimer Dieu « par la seule force de la nature. Je n'assure point que cet amour « soit méritoire sans la grâce, je laisse démêler cela aux théologiens 1. » Si pesino tutte le frasi. Je ne fais aucun doute. Dunque il filosofo è certo della sua sentenza. Je n'assure point: singolar modo di parlare in un cattolico, quando si tratta di un' eresia. La proposizione, di cui il Descartes non è sicuro, è il pretto errore di Pelagio; e siccome colui che dice di non assicurare una cosa, mostra di tenerla come verosimile, o almeno in qualche modo probabile; ciascun vede da sè medesimo quel che ne segua. Je laisse démêler cela aux théologiens. I teologi non possono tenersi affrontati di questa magnanima sprezzatura, poichè il vilipendio tocca la stessa fede, e ricade sullo schernitore, s' egli ignora, che ogni galantuomo è obbligato di non credere a caso, e di sapere, occorrendo, rendere ragione delle sue credenze. Nel resto, il Descartes fa prova di una specchiata ignoranza, e nel pensare, che si possa veramente amare Iddio, senza i soccorsi celesti, e nel supporre che un tale amore non sia per sè meritorio. Si può disputare, se le sole forze di natura valgano ad inspirare un amore iniziale e filosofico, ovvero mercenario della Divinità, razionalmente conosciuta; ma, che Iddio si possa amare

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di un vero amore, o che un amore anche imperfettissimo possa aversi naturalmente verso Iddio, considerato come autor della grazia, è sentenza, a cui ogni cattolico non dee far buon viso, per quanto ha cara la sua fede. L'amor di Dio considerato, come autore della natura e della grazia, è carità o speranza, secondo che l'affetto riguarda la bontà divina, o in sè stessa, o nelle sue attinenze verso le creature: ora ogni moto di carità o di speranza, ancorchè tenuissimo, non può sorgere naturalmente nei cuori umani, sia per la sua intrinseca eccellenza, che trascende ogni finito potere, sia per la special condizione dell' uomo attuale, schiavo di un affetto disordinato verso sè stesso e le cose sensibili.

È poi un altro errore il credere che il vero amor di Dio possa essere per sè stesso non meritorio in alcun modo; imperocchè l'amore e il merito si corrispondono, come la causa e l'effetto. Può bensì la proprietà meritoria del vero amore essere impedita da una condizione estrinseca, la quale occorre, ogni qualvolta l'amante è nello stato di colpa, e il suo affetto non è quale si richiede per cancellarla; perchè l' atto veramente virtuoso non può essere radice di merito, se non in quanto rampolla da un animo puro e santificato; ma non è men vero ch'esso atto in sè stesso tende al merito, e concorre effettualmente a produrlo, quando un abito concorde alla sua eccellenza informa l' animo dell'operatore. Insomma, il Descartes disgiunge due cose, che sono inseparabili; imperocchè la fede c'insegna che senza la grazia non si può meritare, perchè senza la grazia non si può veramente amare. Veggasi adunque con quanta ragione Antonio Arnauld scriveva nel 1669, che le lettere del Descartes « sont pleines de Pélagia

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nisme, et que, hors les points dont il s'était persuadé par sa philosophie, comme est l'existence de Dieu, et l'immortalité de <«<l'âme, tout ce qu'on peut dire de lui de plus avantageux, est qu'il a toujours paru être soumis à l'église 1. » Certo corre qualche divario da questo giudizio a quello, che l'illustre teologo

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avea portato ventott' anni innanzi nel leggere per la prima volta le Meditazioni. Egli ebbe finalmente subodorata la volpe.

Egli è singolare che la prima censura autorevole della filosofia del Descartes sia uscita dalla Congregazione dell' Indice; il cui decreto contro le opere di quello, è dei 20 di novembre del 1665. Il Thomas colla sua solita perspicacia si maraviglia di questo decreto; e il Baillet lo attribuisce ai maneggi di un privato '. Io vorrei pure maravigliarmene, se Roma non avesse fatto prova in cento altre circostanze di una sagacità incomparabile a penetrare addentro nelle dottrine, scoprire nei principii le ultime conseguenze sfuggite all'occhio di tutti i coetanei. Le congregazioni di Roma non si aggiudicano certamente l'infallibilità, e poterono soggiacere talvolta agli errori e alle debolezze inseparabili dall' umana natura; ma oso dire che niun maestrato scientifico o religioso ha giammai avuto, per così dire, un senso ideale e cattolico, e una facoltà divinatrice dei corollarii chiusi nel germe di una dottrina, cosi squisita, come quella, che risplende in molti dei loro giudizi. Mentre uomini piissimi, e tanto celebri per dottrina quanto per ingegno, sedotti da un falso sembiante, salutarono il nascente Cartesianismo, come un sistema favorevole alla religione, senza avvisare i semi funesti, che vi si occultavano, i romani censori n' ebbero il presentimento, e pronunziarono una sentenza, cui la filosofia europea, da due secoli in qua, tolse a confermare nel modo più solenne colle sue proprie opere.

NOTA 20.

L'ingegno altamente filosofico del Malebranche lo fa spesso scostare dal Cartesianismo, anche dove pretende di essere cartesiano. Così, verbigrazia, quando vuole esporre il processo iniziale dello spirito umano, incomincia, dicendo: « Le néant n'a

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