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male era salito anche più in alto; poichè gli imperatori si erano intromessi nella elezione del capo supremo della Chiesa, arrogandosi un diritto di conferma, che abbassava il papato al grado di una magistratura imperiale.

Rivendicare alla Chiesa la propria libertà e l'indipendenza al papato; togliere al potere civile l'usurpato diritto delle elezioni ecclesiastiche: ecco il programma concepito con grande chiarezza di vedute da papa Gregorio VII, e da lui propugnato con una forza di volontà che fece meravigliare il mondo. L'opera sua fu una vigorosa reazione contro abusi, che nel corso de' secoli avevano preso l'aspetto di diritti; e, come tutte le reazioni, non fu senza eccessi, derivati per naturale conseguenza dalla lotta medesima: poichè allo scopo di assicurare l'indipendenza alla Chiesa e di sottrarre il papato alla giurisdizione imperiale, Gregorio VII si fece a sostenere energicamente la supremazia della podestà religiosa sopra la civile; e dalla fiera opposizione mossa dagli imperatori nella lotta per le investiture, fu indotto a cercare, in ogni modo, di abbassare l'autorità imperiale e di innalzare in sua vece quella dei papi, della quale egli mirò a fare l'alta podestà sovrastante a tutti gli stati cristiani.

Questo piano, vasto fino a sconfinare, papa Gregorio VII non lo vide attuato che in piccola parte; a proseguirlo e a dargli compimento volsero l'opera i successori di lui per tutto il secolo decimosecondo, favoriti grandemente nel loro intento dalla memorabile lotta che, contro gli imperatori, mossero i Comuni italiani, de' quali i papi si fecero alleati e protettori;

ma solo col pontificato di Innocenzo III, sia per il felice concorso di varie circostanze, sia per la naturale logica delle cose, sia per le doti eminenti del grande uomo che tenne per diciott'anni la cattedra di san Pietro, solo allora parve attuato in ogni sua parte il vasto programma di Gregorio VII, ed il papato dominare il mondo.

Dopo Innocenzo III la teocrazia pontificia va declinando rapidamente: mutano i tempi, mutano le idee, e le nuove nazioni, conscie di loro giovanile vigoria, si fanno innanzi a reclamare la propria indipendenza dalle supreme autorità che ne hanno tutelato la malsicura adolescenza.1 Il papato, uscito da poco vittorioso dall'ultima contesa contro l'impero, sente che è giunta anche la sua ora di rinunziare alla supremazia temporale, e la parabola ormai discendente della sua podestà teocratica si compie ad un solo secolo di distanza dal pontificato di Innocenzo III, che ne aveva segnato il punto più alto.

Su questo glorioso pontificato e sulle lotte nelle quali, dopo di esso, fu travolto il papato ai tempi di Federico II; sulle sorti della Chiesa in questo periodo e nel seguente, in cui i papi volgendosi dalla Germania alla Francia contraggono con questa un' infelice alleanza, e fino alla schiavitù avignonese ultima conseguenza di quella alleanza, io mi propongo di richiamare la vostra attenzione, o signori; con questo speciale intendimento, che voi possiate meglio comprendere quali ragioni avesse a biasimare, quali a lodare, il terribile uomo che, pur essendo sincero credente, si levava giudice severo del papato ai tempi di Bonifazio VIII e di Clemente V.

Nel succedersi degli avvenimenti in mezzo ai quali veniva innalzato al soglio pontificio Innocenzo III, parve manifestarsi visibilmente la mano della Provvidenza a tutela della Chiesa. Contro l'imperatore Enrico VI, figlio di Federico Barbarossa, male sapeva difendere i propri diritti papa Celestino III, vecchio cadente e debole contro un giovane vigoroso e prepotente, che del suo dispotismo feroce aveva già dato prova nel regno di Sicilia oltre che negli stati pontifici da lui usurpati. Già si presagivano tristi giorni per il papato e l'Italia, quando la morte toglieva di mezzo, nel breve spazio di tre mesi, e il giovane imperatore e il vecchio pontefice, mutando d'improvviso le sorti. A Celestino III succedeva nel fiore dell'età Innocenzo III; ad Enrico VI, un bambino di quattro anni nel regno di Sicilia, mentre l'impero rimaneva vacante a lungo per una duplice elezione che gettava la Germania nella discordia e nell'anarchia. Era quello il momento di restaurare l'autorità pontificia e di spingerla arditamente verso quella supremazia universale cui mirava da Gregorio VII in poi, e il nuovo pontefice non esitò punto a volgere a tutto suo profitto le circostanze favorevoli del momento.

Cominciò dal ricostituire il dominio temporale della santa Sede caduto quasi in totale rovina sotto il debole suo predecessore; e per prima cosa rialzò la sovranità papale in Roma, abbattendo le due autorità che ne rendevano vana ogni azione: il prefetto imperiale, ed il senatore che era il supremo magistrato del comune: debole il

primo per aver perduto le antiche attribuzioni, e destituito ormai d'ogni appoggio dopo la morte dell'imperatore; forte invece il secondo per la potenza acquistata dal comune capitolino, e tale che non senza gravi contrasti, rinnovatisi anche in seguito, riuscì ad Innocenzo di assoggettarlo, avocandone a sè la nomina. Come in Roma, così riaffermò la sovranità pontificia nelle altre. città dell'antico ducato romano, primo nucleo e più eletta porzione del patrimonio di san Pietro.2

Quindi pose mano a ricuperare le altre terre sulle quali i papi vantavano diritti sia in forza dell'antica donazione di Carlomagno, sia per quella più recente, ma non meno contrastata, della contessa Matilde; quali le Romagne e le Marche d'Ancona, la Toscana, il ducato di Spoleto colla contea d'Assisi: terre che l'imperatore Enrico VI aveva tolte loro per investirne i suoi tedeschi, e innanzi tutti il fratello Filippo, per il quale aveva eretto in ducato il marchesato di Toscana. Il malgoverno de' nuovi signori stranieri agevolò la via ad Innocenzo, poichè egli fu accolto come liberatore da quei popoli oppressi e come rivendicatore delle libertà comunali conculcate da Enrico VI, sì che divenne l'alleato e il protettore di leghe cittadine dove non potè ristabilire la propria sovranità.

Intanto accordava al piccolo Federico, figlio del morto imperatore, l'investitura del regno di Sicilia e di Napoli, e ne riconosceva come reggente la vecchia madre Costanza, che l'eredità normanna aveva recata in dote nella casa sveva; ma l'obbligava a rinunziare ai privilegi di nomine ecclesiastiche estorti a papa Adriano da Guglielmo I, e a riconoscere solennemente la signoria feu

dale dei papi sul reame stesso. Per tal modo, mentre affrancava la Chiesa da una odiosa servitù, assicurava al papato l'alto dominio sulla Sicilia e sull'Italia meridionale; alto dominio che egli meglio rassodò più tardi, quando, fatto tutore del reale fanciullo per disposizione testamentaria della madre, ebbe per parecchi anni quel regno sotto la sua immediata dipendenza.

Così papa Innocenzo III, assecondato in modo singolare dalla fortuna, riusciva in breve a consolidare il dominio della santa Sede e a dargli un'estensione ed una realtà di fatto quale non aveva mai avuto; e nel tempo stesso, col favorire le franchigie comunali, continuatore in ciò della grande politica di Alessandro III, egli si poneva alla testa di tutta l'Italia, e su di essa esercitava una decisa influenza, recando quasi a compimento l'ideale guelfo di una confederazione italica sotto la suprema podestà dei pontefici.3

Ma da Gregorio VII in poi i papi miravano ben più in là dei confini d'Italia: miravano ad estendere la loro supremazia sopra tutti gli stati d'Europa.

È molto facile, e può essere anche molto comodo, gridare all'ambizione sconfinata dei pontefici e al loro superbo programma di una teocrazia universale: ma sarebbe altrettanto ingiusto e contrario ad ogni senso storico, non tener conto delle molteplici ragioni che nei primi secoli dopo il mille dovevano fatalmente portare il papato a quella specie di egemonia mondiale. Le condizioni della vita politica in quei tempi di fede

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