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E non basta ancora: non tace nemmeno chi vien dal basso. Giotto si diverte a spese del popolano che, dovendo reggere una castellania, vuole dipinta la sua brava insegna, il suo stemma, come fosse dei reali di Francia. 138 Con maggiore gravità, Giovanni Villani, niente soddisfatto di queste ondate democratiche, osserva che il governo spetta ai saggi, agli ottimi, e cita, per la circostanza, Platone. 139

Magnati e plebe andavano poi, sia pure per un momento, d'accordo, nel dir male, con garbo e spirito, dei grassi mercanti fatti, anzi vestiti da cavaliere. Anche allora, con altre rime e con versi meno allegri, risonava il ritornello:

Salute a Bécero

Viva il droghiere!
Bellino in maschera

Di cavaliere! 140

In casa, la suocera nobile (anche la suocera!) aumentava con una serqua d'insolenze, indegne invero della nobiltà, le delizie matrimoniali del ricco mercante, che aveva voluto << ingentilir per moglie ». 141

Eppure, sovra la nebbia fastidiosa di questi piccoli e grandi rancori, aleggia uno spirito di carità sublime, che, forse perchè è spirito, non trova posto nelle nuove categorie del materialismo storico.

Rari sono i testamenti senza pii legati, a favore degli infelici. Nei loro statuti, le pie fondazioni accolgono parole, solite al divino linguaggio di Francesco d'Assisi: << i signori nostri poveri », ecco i padroni dei tesori della carità! 142 Si visitano infermi e prigionieri; e si sente che la povertà ha diritto a soccorso ed a rispetto.143

Sono a tavola i felici del mondo: i giullari, cavalieri anch'essi per burla, tengono allegra la brigata; sulle mense ricchissime scintillano i vasi preziosi; ma brillano di luce, anche più viva, certe parole incise sulle argentee saliere: prima d'ogni altra cosa, o tu che siedi a mensa, ricordati del povero. 144

La beneficenza non colmava, è ben chiaro, l'abisso fra le grandi ricchezze e le più grandi miserie.

Che i poveri si rassegnassero alle loro strettezze non oserei dire; ma frate Giordano cercava tutti gli argomenti, per persuaderli che non è sventura l'esser meschini, fors' anche è una grazia di Dio.145 Più tardi, altri predicatori, cioè i caporali del popolo, terranno diverso linguaggio: << seguiteci e vi faremo tutti ricchi ». 146 Siamo alle prime avvisaglie del tumulto dei Ciompi, e perchè fuori d'argomento, noi non seguiremo alcuno.

Le condizioni economiche non erano liete. Si afferma che il prezzo del grano nel trecento era la metà dell'odierno; che le mercedi degli operai erano abbastanza elevate; 147 ma, anche con questi dati, si giunge a conclusioni poco sicure. Intanto, questa diavoleria della potenza di scambio della moneta è tutt'altro che chiara; e poi, e poi, ci sono tanti se e ma. I salarî talvolta non sono lealmente pagati come si dovrebbe; 148 la peste e la carestia infieriscono spesso ed a lungo; 149 la popolazione operaia è aumentata in modo eccessivo, pel richiamo in città di gente di contado.

A' tempi del primo Villani, a Firenze c'erano trenta mila appartenenti all'arte della lana; 15o crisi industriali, fallimenti, mutare di produzioni e tante altre vicende, come guerre interne o cittadine, mettevano a dure prove

l'equilibrio economico, fonte di benessere per le classi lavoratrici. Si aggiungano, inoltre, altre considerazioni : il lungo garzonato obbligatorio per gli statuti delle arti; 151 il frequente spostamento delle masse lavoratrici dall'uno all'altro mestiere, secondo i bisogni del mercato; 152 e sovrattutto il sistema fiscale del Comune, a base d'imposte indirette, e gravante i così detti generi di prima necessità. 153

Il genio finanziario dei nostri vecchi repubblicani aveva scoperto tutte, dico tutte, le imposte e le tasse, che ci deliziano anche oggi; 154 ma, ripeto, se un borghese avveduto poteva evitare furbescamente l'esacerbazione delle imposte, 155 i gabellieri, alle porte della città, mettevano le mani un po' gravi, a dir vero, anche sulle ova nascoste nelle ampie brachesse d'un povero diavolo.156

Anzi i continui tumulti dei nostri Comuni non si possono spiegare del tutto, senza tener conto d'un malessere economico, che tendeva ad aumentare sempre. La stessa amministrazione della giustizia, per quanto democratica, era tutt'altro che rigida ed imparziale.157 Noto un fatterello, che mi risparmia una dissertazione storicogiuridica. A Firenze, nel trecento, messo del Comune (oggi si direbbe un pubblico ufficiale) era un falsario, convinto e condannato in piena regola; quindi senza il lusso della mano destra. Veramente gli avevano mandato, in carcere, otto lirette d'argento, chè tante ce ne volevano per riscattare la mano; ma il nostro galantuomo aveva preferito redimere l'argento tentatore con la mano destra, intascando i quattrini con la sinistra! Ciò non gli aveva impedito, tuttavia, di diventare nuncio del Co

mune, come se mai egli non avesse avuto a che fare con la giustizia! 158 E quanti, non separati delle rispettive mani, erano scesi più in giù di quel messere, e poi saliti più in alto!

Abuserei troppo della Vostra cortese indulgenza, se Vi trattenessi ancora a rovistare meco nelle memorie del trecento, che sono così magicamente suggestive. Soggiungerò solo che, dopo tante lotte, il popolo onde uscì viva e gagliarda l'anima di Dante, fu côlto da un malessere politico ed economico, non più sanabile dalla meravigliosa operosità, che ormai, per tante e ben note ragioni, si andava spegnendo. Il Comune si affidava tutto alle armi dei mercenarî159; e le discordie fra i ceti cittadini diventavano più fatali alla causa della libertà: gravi mutazioni politiche erano già dai più saggi prevedute, con certezza dolorosa. 160

Fra i tumulti del trecento, la famiglia dei Medici fa capolino: il principe, mascherato da popolano, sedicente apportatore di pace, spunta e resiste, questa volta, anche a Firenze; ma la vecchia fibra fiorentina non è ancora logora: il popolo darà, nell'ora suprema, per la difesa della libertà, il suo eroe immacolato, Francesco Ferrucci, prima di adagiarsi nella sonnolenza della snervante tirannide.

Signori,

Il trecento vibra pur sempre nelle anime nostre, come un fremito di vita, di pensiero, di arte che supera, trion

fante, il lungo e grave silenzio dei secoli. Tutta la nostra vita moderna sente di posare come sopra un gran masso; ed il gran masso è il trecento italiano.

Le genti primitive, nelle dure lotte per l'esistenza, dai piani infidi salivano faticosamente le sommità dei monti, che si coronavano di fortezze e di templi, asili e focolari della civiltà nascente. E dal monte le genti ridiscendevano più agguerrite e più colte, ma con lo sguardo sempre rivolto alle ardue cime granitiche, d'onde s'ergevano i templi degli dei nazionali, giganteschi simboli del genio di tutta una nazione. Così ha fatto il popolo italiano. Esso ha lasciato le sue vecchie fortezze, i suoi turriti palazzi dall'aspetto pauroso, gli aspri e sanguinosi cimenti per la libertà e per l'eguaglianza cittadina; ma egli guarda pur sempre le moli superbe, che adornano l'alta montagna, come monumenti, che ricordano la sua grandezza, la sua remota civiltà, la sua gloria.

La montagna maestosa è proprio il nostro medioevo, ed il monumento che le sovrasta, e che l'Italia contempla, con un senso di religiosa reverenza, è la Divina Commedia.

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