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dell'Umbria facevan ressa intorno al bizzarro eremita, al loro Jacopone; così umile cogli umili, così fiero e franco coi potenti! Il quale, oltre alle poesie religiose, ce ne ha lasciate di satiriche, violente, contro Celestino Ve Bonifazio VIII. Per esse egli fu preso, gettato in catene entro un buio sotterraneo, colpito dal fulmine della scomunica papale.

Nelle edizioni delle poesie di questo stultus propter Christum frammiste a quelle de' suoi pari e de' suoi seguaci troviamo anche laudi narrative e ammonitive in decima rima ovvero in forma di serventese. Ciò conferma la parentela della giullería sacra colla profana: poichè per raccontare o ammaestrare i cantimpanchi italiani adottarono nel Dugento appunto il serventese e se non la decima rima (restata sempre tra i laudesi) 39

l'ottava. A quest'ultima forma, narrativa per eccellenza, del canto popolare, non uscita mai in antico fuori dai confini della nostra penisola, i laudesi pervennero movendo dalla ballata religiosa, ossia dalla laude: i cantimpanchi la raccolsero di sulle labbra dei popolani danzanti in cerchio cantando ballate d'amore o intonanti strambotti sotto le finestre della bella 4°.

Io non posso, nè potendo vorrei, riassumere qui da ultimo, nel breve giro di tempo che la cortesia de' miei uditori può ancora concedermi, la storia delle origini, al tutto popolari, del teatro italiano, narrata con tanta copia d'erudizione dall'uomo illustre di cui mi glorio

discepolo. Nessuno ignora, che la Chiesa, fieramente avversa in principio ai ludi scenici, finì con accoglierli, trasmutati, nel suo seno; e che non senza un ricordo dei contrasti degl' istrioni, comunissimi in Italia e fuori nella letteratura giullaresca di cui s'è parlato, le ballate sacre o laudi delle confraternite dei Flagellanti assunsero forma di dialogo, preludio al dramma. Nei giorni solenni, alla simbolica rappresentazione della passione di Cristo, che ha luogo nella messa, se n'era venuta aggiungendo una materiale o sensibile: questa presero ad esempio i laudesi dell'Umbria e dell'Abruzzo.

Ma gli svolgimenti di tale forma drammatica son troppo tardi perchè se n'abbia a far cenno nel rilevare che facciamo le manifestazioni dell'arte di popolo ai tempi di Dante. Quest'arte operò efficace allora su altre forme della letteratura nostra. La tenzone in rima, per esempio, che, scherzevolmente motteggiando, l'Alighieri • sostenne con Forese, fratello a messer Corso Donati, è documento notevole d'una poesia schiettamente paesana, che al popolo deve moltissimo; poesia degnamente rappresentata ne' tempi di Dante in ispecial modo da Cecco Angiolieri- principe degli umoristi del Dugento

nelle cui rime l'animo è messo a nudo con crudezza così singolare, e, come sempre nella vita umana, il riso e il pianto si alternano. Infine la vaghissima ballata dantesca Per una ghirlandetta | ch'io vidi mi farà | sospirare ogni fiore, quella del Cavalcanti In un boschetto trovai pastorella, e qualche altra, hanno intonazione popolare continuata e manifesta.

Sennonchè, Dante e gli altri « dicitori per rima » toscani dello stil novo, oltre che alle vivide sorgenti

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inesauste dell'arte di popolo, attinsero come ho accennato in principio alla tradizione perennemente efficace sulla vita dell'Italia nostra, ove la face del pensiero latino neppur nei secoli di più ferrea barbarie non s'era estinta mai. Per tal modo, da un lato l'elemento classico potè dare nel Dugento alla lirica culta, infeudata all'imitazione forestiera, una contenenza e una dottrina fuori dei luoghi comuni dell'arte trovadorica e dell'amore cavalleresco; dall'altro lato l'elemento popolare, accolto temperatamente dai poeti del dolce stile, ricondusse la lirica al suo ufficio vero, d'essere subiettiva espressione genuina del sentimento.

Per la fusione di tali elementi in un solo, che fu tra noi il principio effettore nazionale della letteratura, s'ebbe in Italia tra il secolo XIII e il XIV un fenomeno che, stante la sua analogia con quello che si produrrà più di cent'anni dopo, vorrei mi fosse concesso di chiamare il nostro Primo Rinascimento. Dante e i suoi confratelli del dolce stile, che, raccolta di sulle bocche del volgo l'umile canzone a ballo, operarono nella lirica amatoria il connubio della poesia filosofica sorta nella dotta Bologna col vigoroso e schietto sentimento del popolo fiorentino, fecero sul cader del Dugento cosa non sostanzialmente diversa da quella che più tardi, negli ultimi decennî del secolo XV, faranno il Poliziano e Lorenzo de' Medici. Certo fra gli uni e gli altri, anzi fra il Petrarca, glorioso epigono dal dolce stile, e gli umanisti fiorentini della seconda metà del Quattrocento, corsero molti e molti anni d'un lavorio tranquillo intorno ai superstiti documenti del mondo antico: onde i nuovi poeti, educati alla scuola di Catullo e d'Orazio, pote

rono appropriarsi del classicismo non più soltanto la materia greggia, sì l'arte squisitissima. Ma anche questa volta il connubio di tale arte col sentimento del popolo si attuò in Firenze, la nuova Atene, per opera d'un mercante fiorentino emulo, nel suo potere dittatorio, della munificenza periclea, nei versi in volgare, classicamente lavorati eppur fragranti di freschezza, del suo migliore cliente ed amico.

E, in fondo, questo principe poeta e questo poeta cortigiano non fecero se non rompere al suono delle classiche cetre, sotto i laureti di Careggi, l'alto letargo che, dopo il Petrarca, per quasi un secolo aveva assorto la musa toscana dell'Alighieri! Poichè al pari di essi Dante, e nelle liriche e, meglio, in quel suo poema più perfetto per ogni parte e più sublime di qualsiasi altro che mente umana abbia pensato, aveva tolto dagli antichi, massime da Virgilio, lo bello stile, avea ravvivato certe innate virtù, maravigliose, dalle genti italiche; ma al tempo stesso, amorosamente, genialmente, secondo l'alto suo intelletto e il suo gusto squisito, s'era ispirato alla vita, all'arte, al costume, alle tradizioni del popolo nostro.

Mote

1 Iliade, XVIII, 565-72.

2 Iliade, XVIII, 593-606.

3 Cfr. PIAZZA Di Torreselle, Pervigilium Veneris, 2a ed., Catania, 1894.

4 Vedi PASCOLI, Lyra romana, Livorno, 1895, pp. 6-7, 17-8, lxxxix.

5 CRESCINI, Manualetto provenzale, Padova, 1892-94, P. 43.

6 Per la notazione musicale di questa celebre ballata, v. TIERSOT, Hist. de la chanson populaire en France, Parigi, 1889, pp. 42-3. Ne ho ordinata la strofe secondo lo schema che la melodia suggerisce: A eya, A eya, A eya | AB + ritornello.

7 Carm., IV, 1, vv. 25-8.

8 Ecloga IV, vv, 127-29 (« ... Ecce per illum | seu cantare iuvat, seu ter pede laeta ferire | carmina, nonnullas licet hic cantare choreas »).

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