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filosofi, di maestro di color che sanno, di conducitore delle genti (C., IV, 1) non concedendo a Platone altro che quello di uomo eccellentissimo (C., II, 4) anzi dichiarandolo inferiore allo Stagirita (Inf., IV, 134)?

E si pensi che il concetto della forma vera della terra, e del trarre che fanno i gravi al centro gli venne da Platone, il che né da Aristotele né dalla filosofia del suo tempo va ammesso, tanto che alcuni commentatori poco diligenti vollero fare del divino poeta un precursore di Newton. D'altra parte, se Dante lesse il Timeo, come mai non rivendicò questa teoria al grande filosofo? E come mai Dante, tanto affine d'idee e di sentimenti a Platone, come lui altamente poeta in ogni sua filosofica concezione, seguí l'andazzo del suo tempo d'elevare Aristotele sopra Platone? (Inf., IV, 134; Purg., III, 43). Certo se Dante avesse letto un'opera qualsiasi di Platone, ne sarebbe rimasto tanto entusiasta, l'avrebbe trovata cosí conforme allo spirito suo, vi avrebbe tanto appreso, che forse invece di Virgilio, Platone gli sarebbe stato compagno nel suo viaggio attraverso i regni dei morti.

Dopo tutte queste osservazioni non mi sembra soverchia arditezza l'affermare che Dante non lesse alcun'opera platonica né nel testo, né nella tradu

zione.

Non ammettendo che Dante abbia letto Platone, si può benissimo spiegare il suo platonismo pensando che egli studiò certo le opere di quei convinti neoplatonici cristiani, che furono s. Agostino, s. Anselmo, e s. Bonaventura, (Ved. Vito Fornari, Sul Convito di Dante Alighieri in Dante e il suo secolo, 443) le quali sono specialmente informate a Platone (Boezio, De cons. Phil., I, 3; III, 9; V, 5; S. Agostino, De civ. Dei, VIII, conf. 7, 9; S. Bonaventura, Mag. sent., II, 1).

Il Paganini, nello studio del quale abbiamo già fatto cenno, dice: «assai meno (dell'aristotelismo) avrebbe pregiudicato alla perfezione del sacro poema lo studio che Dante avesse posto nel platonismo, piú poetico dell'aristotelismo perché piú concorde alla verità.

"

L'idea è ardita, ma ciò nullameno vera. Se l'Alighieri avesse studiato Platone, certamente egli sarebbe stato piú filosofo e meno scolastico; e il suo poema, non guasto dalla fredda prosa aristotelica, piú armonioso e piú continuo.

Milano, febbraio 1895.

L. MARIO CAPELLI.

FIGURE DANTESCHE

Ciacco, Filippo Argenti, Farinata, Guido Cavalcanti e Pier delle Vigne.

I.
CIACCO.

La seconda figura, che ci si presenta piú giú, è Ciacco: chi si fu costui? E' Boccaccio cosí provvide alla bisogna: "Un gentiluomo fiorentino, pieno d'urbanità e di motti faceti, il quale, conciossiaché poco avesse da spendere, usava sempre con gentili uomini e ricchi, e massimamente con quegli che splendidamente e delicatamente mangiavano e bevevano,, (Com. alla divina Commedia).

Era, dunque, un burlone, un parassita dalla schiena flessibile, a cui piacevano le laute mense, e che perciò, a furia di facezie, andava scroccando pranzi da' signori, amici suoi.

Il Fraticelli nota che, a Firenze, havvi tuttora la famiglia Ciacco. Ma, v'ha chi crede che quel nome si desse comunemente a' porci e, in ispecie, a' maiali, che s' ingrassano per far loro la festa in carnevale. Quel nome sarebbe, dunque, un simbolo di tutti i crapolonied ubbriachi, che, gozzovigliando, traggono vita stomachevole, fangosa.

Ed egli e me: la tua città, ch'è piena
d'invidia sí, che già trabocca il sacco,
seco mi tenne in la vita serena.
Voi, cittadini, mi chiamaste Ciacco:
per la dannosa colpa della gola,
come tu vedi alla pioggia mi fiacco:
Ed io, anima trista, non son sula:

ché tutte queste a simil pena stanno
per simil colpa. - E piú non fe' parola.

(Inf., VI, 49-57).

Il tormento, cui sono sottoposti, è cosí descritto da Dante:

Io sono al terzo cerchio della piova
eterna, maledetta, fredda e greve:
regola equalità mai non l'è nuova.
Grandine grossa ed acqua tinta e neve
per l'aer tenebroso si riversa:

pute la terra, che questo riceve.
Cerbero, fiera crudele e diversa,
con tre gole caninamente latra

sovra la gente che quivi è sommersa.
Gli occhi ha vermigli, e la barba unta ed atra,
e 'l ventre largo, ed unghiate le mani;
graffia gli spirti, gli scuoia ed isquatra.
Urlar gli fa la pioggia come cani:

dell'un de' lati fanno all'altro schermo ;
volgonsi spesso i miseri profani.

(Ivi, 7-21)

I crapuloni, di fatto, dicono che in tre modi si mangia: prima con gli occhi, sedendo a tavola bene imbandita; poi col naso, pregustando il buon odore delle vivande; da ultimo con la bocca, empiendone l'epa infino al gozzo, mentre la musica allieta i commensali. E tutti i sensi sono mortificati dal poeta, il quale, in forma indiretta, par che cosí dicesse a' golosi : Vi piacevano le mense bene apparecchiate? - Ed, ora, la vostra imbandigione è questo fango. Vi piacevano i calici spumanti di vino eletto? Ed, ora, bevete di quest' acqua tinta o sporca. Vi piacevano i succolenti manicaretti? Ed, ora, man

-

-

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giate di questa grandine e di questa neve. Vi piacevano le ricche lumiere e i candelabri sfavillanti? Ed, ora, pascetevi di questo buio eterno. Vi piacevano i profumi de' fiori e 'l grato odore de' pasticcini? Ed, ora, godete pure di queste putride esalazioni. — Vi piacevano, infine, le scelte melodie, che di lieti concenti empivano l'aere d'intorno? Ed, ora, abbiatevi le orecchie eternamente intronate da Cerbero cane. È tale, e non altra la spiegazione da darsi a questo luogo di Dante, giusta le indicazioni lasciateci da Pietro e da Iacopo, suoi figliuoli. "La bufera infernale che mena gli spiriti (scrive il Bartoli) è pena terribile ma grandiosa. Nessuna grandiosità, invece nella pena data a' golosi. „ (St. della letteratura italiana, Firenze 1887, vol. VI, pag. 111).

E non ve ne doveva essere, dappoiché la dipintura graduata della umana degenerazione o della continua deformazione del senso, è già cominciata. La vita, di fatto, che, un momento fa, era ancor senti

mento e stava perciò concentrata nel cuore, ora è scesa nel ventre: lo spirito già si va dileguando, e sottentra la materia: e, se la forma deve corrispondere al concetto che incarna, essa non poteva essere grandiosa (come il Bartoli avrebbe desiderato), ma bassa, ributtante, schifosa. E, con sublime inconseguenza, il Bartoli stesso, indi a poco, cosí si emenda: "Il poeta ha voluto presentarci un luogo dove tutto è schifoso. L'acqua tinta, la sozza mistura dell'ombre e della pioggia, quegli spiriti graffiati, scuoiati, squartati, che urlano come cani, rotolandosi nel fango, sono immagini della viltà del peccato, dell'abiezione in cui cade colui che vive per il ventre.

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Non piú mangiare per vivere, ma vivere per mangiare; il fine della vita è, dunque, invertito. Sicché ripeterò anch'io col Bartoli: "Non mi pare si debba cercare di piú. Furono bestie; e la loro qualità di bestie è meravigliosamente rappresentata nella pittura del poeta. „ (Ivi, pag. 112-113).

Dall' individuo, ch'è Ciacco, estendete lo stesso concetto alle repubbliche, pur sì fastose, di Atene, di Sparta, di Roma, (antiche), nonché de' Comuni; e troverete che tutti terminarono al modo stesso, cioè col ventre o con la crapula; onde, poi, la dissoluzione degli ordini sociali. L'apparizione di Bacco nella storia ideale dell'arte, ha pure il profondo significato; e chi ne voglia una recente prova, un ultimo documento umano, legga Il ventre di Parigi di Emilio Zola (il gran verista moderno !)

II.

FILIPPO ARGENTI.

La terza figura, che, nella palude stigia, ci si para d'avanti, è quella di Filippo degli Adimari, ricco e potente signore fiorentino, cognominato Argenti, perché faceva, per orgoglio e bizzarría, ferrare d'argento il superbo destriero ch'ei cavalcava. Alto, bruno, nerboruto, era dotato di forza straordinaria, meravigliosa. Iracondo all'eccesso, per un nonnulla montava in furia. Fu proprio questo Filippo Argenti degli Adimari quel facinoroso, che tanto si adoperò per fare che da Firenze fosse, e per sempre, espulso Dante insieme a tutti que' di parte bianca; e 'l fratello di lui già godevasi i beni, confiscati al povero poeta: (in Camerata, in San Martino a Pagnolle e in Piano di Ripoli,

luoghi tutti deliziosi e vicini a Firenze): notizie pur tanto peregrine, dobbiamo allo stesso Boccaccio (V. il suo Decamerone, IX, 8). Ognuno potrà, quindi, immaginar di leggieri qual fosse l'animo di Dante per uno che l'avea privato di ogni cosa "piú caramente diletta gittato in fondo d'ogni miseria.

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e l'avea

Il poeta immagina che stesse già traghettando lo Stige per approdare alla Città di Dite; e notevole è la descrizione della navicella:

Corda non pinse mai da sé saetta,

che si corresse via, per l'aer, snella, com'io vidi una nave piccioletta venir per l'acqua verso noi in quella, sotto il governo d'un sol galeotto,

che gridava: Or sei giunta, anima fella!,

(Inf., VIII, 13-18).

Ma che ragione v'era, di correr tanto? Siamo nella palude stigia, dove sono sommersi gl'iracondi; e questi, sempre dissennati e furibondi, s'avventano alla navicella per trascinarla seco ne' gorghi del pantano. Per Dante v'era, dunque, l'imminente pericolo d'affogare. Ed oh! la stupenda dipintura, che, ora, segue:

Mentre noi correvam la morta gora,
dinanzi mi si fece un pien di fango,

e disse: chi se' tu che vieni anzi ora?

(Ivi, 31-33).

Come avea fatto il dannato a sapere che Dante era ancor vivo? La barca, sotto il peso del corpo, s'era affondata: "E sol quand' i' fui dentro, parve carca. (Ivi, 27.) Non viaggiava, dunque, uno spirito; ma un uomo in carne ed ossa.

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Ed io a lui: S'i' vegno, non rimango;

ma tu chi se', che si se' fatto brutto?
Rispose: Vedi che son un che piango.

(Ivi, 34-36).

Una prima frecciata, la bruttezza; e una prima soddisfazione, le lagrime. Dove sono più l'oro e l'argento? dove, i palagi ed i cavalli? dove, la superbia e la bizzarria? Non resta che 'l pianto: e chi visse nel fango, ossia nella turpitudine, è giusto che or sia tutto deturpato di melma, effetto della colpa.

Ed io a lui: Con piangere e con lutto,
spirito maledetto, ti rimani;

ch'io ti conosco ancor sie lordo tutto.

(Ivi, 37-39).

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