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per dimostrata predilezione a favore del terzo-genito Francesco; che prova non essere più solo il Riccobaldo, giacchè anche il cronista modenese Giovanni da Bazzano, degno di fede e quasi contemporaneo († nel 1363], registra, sotto l'anno 1293 essere corsa voce che Obizzo sia stato soffocato; e che il Memoriale inviato dai bolognesi al doge di Venezia dichiara essere stato Obizzo tolto di mezzo per opera divina od umana, avvalorando per tal guisa la voce corsa e i dubbi. Il per vero di Dante sarebbe, inoltre, nuova conferma del fatto, espressamente detto per infirmare il dubbio di altri.

L'autore scende poi a confutare coloro che male interpretarono il figliastro dantesco, alcuni avendo sostenuto trattarsi non di Azzo primogenito, ma di uno de' parecchi figli naturali di Obizzo, altri avendo congetturato che Azzo fosse veramente figlio naturale e illegittimo di Obizzo. Il Sandonniui, perciò, tesse la storia di questo marchese nelle sue relazioni domestiche, si per rispetto alle due sue mogli, sì per rispetto ai figli avuti; e, confutati parecchi errori storici o leggerezze di commenti, sostiene l'interpretazione di figliastro nel senso di figlio snaturato e infame, perchè parricida, o per lo meno esclude che Dante abbia voluto mettere in forse la legittimità dei natali di Azzo.

L'autore si chiede poscia se e quali ragioni ebbe Dante di relegare Obizzo fra i violenti in altrui, il Muratori avendo affermato che non si sa per quali demeriti, altri avendo tessuto l'elogio del marchese, come di uno fra i migliori o meno spregevoli principi del tempo. Indi, per logica connessione, ampiamente illustra l'altro passo dantesco (Inferno, XVIII) che ac cenna al fatto della Ghisola bella infamemente condotta dal fratello a far le voglie di Obizzo da Este. E viene a conchiudere che questo tiranno non fu peggiore degli altri dell' età sua, che non potè essere collocato nella fossa dei violenti in altrui per ferocia d'animo, ma che, per avarizia e per avidità di danaro, e per commessi attentati, se non alla vita, agli averi dei cittadini, bene meritò di essere punito fra i violenti contro la roba altrui.

Ad inasprire l'animo del poeta contro Obizzo e Azzo VIII da Este può, e deve, secondo l'autore, avere contribuito il tradimento contro Aldighiero Fontana, che aveva tanto operato a pro' di Obizzo, e che l'aveva creato marchese, essendone poi stato fatto avvelenare nel 1270, e le successive persecuzioni e dispersione della famiglia Fontana, dalla quale Dante Alighieri vanta di avere tratto l'origine materna. Opportunamente l'autore commenta, a questo proposito, e in relazione con questi avvenimenli, i versi del canto XV del Paradiso:

Mia donna venne a me di val di Pado,

e quindi il soprannome tuo si feo;

e gli altri che parlano degli antenati di Dante:

Basti de' miei maggiori udirne questo;
chi ei si furo, ed onde venner quivi,
più è tacer, che ragionare onesto.

Nel canto V del Purgatorio Dante rimprovera ad Azzo VIII l'uccisione di Iacopo del Cassaro da Fano, suo personale nemico e denigratore, podestà e strenuo difensore di Bologna, che il tiranno voleva conquistare. Con la narrazione del Prisciano l'autore constata la verità del commesso assassinio, ma opina che Dante non inveì oltre misura per questo fatto contro Azzo, avendo forse ritenuto che al fanese spettasse la propria parte di torto.

L'autore vuole anche rammentare il passo del De Vulgari Eloquentia: «la lodevole. discrezione del marchese d'Este e la pronta sua magnificenza lo fa a tutti esser caro per togliere valore alla asserzione che Dante mai non nomini i signori da Este se non a titolo

di opere tristi e vituperose. Posto a confronto col precedente periodo della stessa Volgare Eloquenza, dove male si parla del marchese Azzo, l'autore conchiude che Dante rivolge biasimo a costui personalmente, non alla intiera famiglia da Este, e che l'Azzo rimproverato è l' VIII, e il lodato è, invece, o l'avo e predecessore di Obizzo, Azzo VII, di cui fu ministro e favorito l'Aldighiero Fontana, o potrebb' cssere anco Azzo VI, uno tra i principali fautori di Federigo II.

Nel canto VIII del Purgatorio si allude, ancora una volta, ad una persona della casa di Este. Al quale proposito, l'autore sostiene che il rimprovero di Nino Visconti giudice di Gallura [.... Se l'occhio o il tatto spesso nol raccende] più che alla moglie Beatrice d'Este, in particolare, è rivolto a tutte le donne in generale. Ed ancora, in tutti questi versi egli non trova, e ne dà le ragioni, che il poeta si dimostri troppo sfavorevole a Beatrice d'Este, e neppure che n'abbia tratto argomento per sfogare il proprio malanimo contro gli estensi.

Dal complesso di siffatte analisi, all'autore non risulta per nulla provato che Dante non menzioni gli estensi se non a titolo di sfregio o scherno, e se non ad esempio di opere tristi e vituperose, come si è da altri voluto sostenere: egli ammette che l'odio politico, per l'importanza assunta negli avvenimenti dell'epoca da Obizzo e da Azzo d'Este a favore degli Angioini e de' guelfi e contro gli svevi e la parte ghibellina, nonchè le addotte ragioni di famiglia non siano state estranee all'animo di Dante nel giudizio di Obizzo e di Azzo VIII, ma che nessun preconcetto ostile, nessuna prestabilita mala intenzione lo ha dominato contro la famiglia de' signori d' Este.

L'opuscolo, piccolo di mole, ma denso di contenuto, riesce una dissertazione storica molto notevole e importante, sia come contributo agli studi danteschi, che nel campo storico per le vicende dei signori d'Este e per gli avvenimenti del loro tempo. Non tutte le conclusioni dell'autore potranno essere accolte così com' egli le presenta, senza riserve e contestazioni; ma è innegabile che, nel complesso, l'indagine storica è condotta con rara efficacia. L'opuscolo, tuttavia, avrebbe molto guadagnato, a mio credere, se non si fosse presentato con l'apparenza di una quasi-polemica, o di una dissertazione a tesi; se non vi abbondassero le ripetizioni, talvolta enfatiche, a confutazione degli oppositori; e se non vi avessero luogo frasi che possono sembrare irriverenti verso scrittori che godono meritamente fama di critici e letterati fra i più valorosi ed eminenti.

G. GORRINI.

NOTIZIE.

Il 20 del corrente mese si publicherà il dodicesimo volumetto [ultimo della prima serie] della Collezione di opuscoli danteschi inediti o rari diretta da G. L. Passerini. In questo vol. Edoardo Alvisi ci darà per la prima volta, traendolo da tre codici, il testo del Commercium paupertatis, pel quale son mirabilmente illustrati i versi 43 a 75 del canto XI del Paradiso. Nei mesi di settembre e di ottobre saran ristampate le Note a Dante di G. De Cesare per cura di N. Castagna e le Osservazioni di N. Villani intorno alla divina Commedia raccolte dal prof. Umberto Cosmo.

- L'editore Hoepli ha publicato, tra i suoi Manuali, la seconda edizione, corretta, rifatta e ampliata dall'autore della Dantologia [Vita ea opere di Dante Alighieri] del nostro illustre collaboratore dr. G. A. Scartazzini.

La Collana di buoni scrittori, del Paravia, si arricchirà presto di una nuova edizione della divina Commedia, annotata di brevi note ad uso delle nostre scuole secondarie, dall'egregio amico nostro prof. Felice Martini.

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La gioconda impressione di chi fugga un tratto la dotta uggia della città per chieder ristoro alla libera semplicità della campagna, la stessa gioconda impressione provai io quando di tra le sapienti contraddizioni delle stampe corsi a chieder fede alla modesta insipienza delle pergamene; e da queste mi parve movesse contro la civiltà dei torchi il coro stesso di lamenti che move eterno dalle campagne contro le soperchierie delle città. Fra i codici tutti però, che ci serbarono gli antichi tesori dell' intelligenza umana, quelli della Commedia di Dante, io credo, hanno il triste vanto di maggior diritto a sí fatti lamenti; non occorre varcar quivi né meno la soglia (Inf., I e II) per trovar esempi di cotesti soprusi della tipografica civiltà. Dalla nidobeatina e dalla aldina infuori, per esempio, tutte le edizioni de' secoli passati rifiutarono la lezione originale del verso (Inf., I, 28):

Poi ch'ei posato un poco il corpo lasso,

perché l'ei od hei per ebbi aveva il torto d'esser diventato un arcaismo, né Dante l'usò altrove mai! Che valore potevano avere, contro cotesta critica, e l'autorità dei codici e l'uso del tempo? Eppure il Bembo aveva scritto nelle Prose della volgar lingua: "Dalla ho, prima voce น del presente tempo [di "avére,,] molto usata, formò m. Cino la prima altresí del passato ei quando e' disse:

Or foss' io morto quand' io la mirai,

ché non ei poi se non dolore e pianto....„,;

e il Castelvetro nelle Giunte a quelle Prose (Napoli, 1714, III, 254) aveva osservato: "Non credo che messer Cino fosse il formatore della voce

Giornale dantesco.

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hei; perciocché, senza dubbio, egli la trovò usata dai più antichi di 'lui, e specialmente da Dante; ed era voce comune del popolo.... e "si usa ancora oggidí in composizione dello infinito, come in amerei, varrei, leggerei.... „. E fra que' "più antichi troviam almeno Guittone d'Arezzo e Brunetto Latini che usarono tal voce in verso e Bono Giamboni che l'usò perfino in prosa. Che piú? Non altrimenti che a' tempi di Dante, in qualche contado toscano essa è "voce comune del popolo, anc'oggidí! Tuttavia, pur di contendere al maggior poeta un diritto a minori e minimi assentito, si deturpò in non meno di trentasei differenti maniere il verso dantesco; il quale non ha né men oggi (dopo che il Dionisi, il Foscolo e il Witte l'accolsero) non ha sí allegra la vendetta da venir sempre accettato (tutt'altro!), né da esserlo anzi mai senza premetter le scuse per il proprio ardire di far capolino (v. N. CAIX, Storia di un verso di Dante, nell' Antologia della critica letteraria di L. MORANDI, p. 290).

Ma non è di questo verso, al cui grido in ogni modo non tutti furono insensibili, non è di questo verso ch' io voglio oggi tener discorso; bensí d'un altro che, pur esso in sul limitare dell'edificio dantesco, ebbe anzi la sorte peggiore, quella cioè di vedersi sempre finora reietto: alludo al v. 81, c. II dell' Inferno:

Piú non t'è uo' ch'aprirmi il tuo talento,

dagli editori tutti mutato sempre per lo addietro e continuato a mutar sempre oggidí nel

Piú non t'è uopo aprirmi il tuo talento.

Gli è dunque del grido che questo verso leva a buon dritto contro lostrazio disonesto „, gli è di quel grido ch'oggi io mi fo interprete, disponendomi ad esaminare le ragioni della diuturna inescusabile proscrizione impostagli dalle edizioni tutte. (Le riproduzioni di codici dateci dal Fantoni e dallo Scarabelli non voglion esser qui prese in considerazione se non come un argomento a nostro favore). Mi correggo: dalle edizioni tutte ne va eccettuata una, quella cioè di Iesi, ch'è del 1472, l'anno si noti in cui apparvero le prime edizioni della Commedia di Dante; da quest'ultima infuori, adunque, tutte le altre, che oggi superano le tre centinaia, quelle che avvennero cioè nello spazio di oltre a quattro secoli, tutte si piacquero di proscrivere la lezione (che diremo qui nostra) del verso:

Piú non t'è uo' ch' aprirmi il tuo talento.

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oci subito innanzi il più formidabile forse degli oppositori, tutti a ogni modo che abbia trattato la questione e il solo la conoscenza profonda della "volgare lingua,, fosse in grado 1 tempo suo un competente e spassionato giudizio a questo Ho nominato il Castelvetro; il quale adunque, nella Giunta relativa del Bembo (Op. cit., p. 51), riferí anzi tutto le vazioni: "Huopo è latina voce; tuttavolta è molto prima provenzali, che si sappia, che da' toscani; perché da loro si e che si pigliasse; e tanto più ancora maggiormente, quanto coscani in uso quest' altra voce bisogno che quello stesso esto huopo non faceva loro huopo altramente. Quantunque ancora più provenzalmente detta, che si fe' huo', invece recandola in voce di una sillaba, sí come la recò Dante, el suo Inferno disse:

“Piú non t'è huo, ch' aprirmi 'l tu' talento

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etro, cui non parve qui vero di poter pigliare due piccioni riferita questa nota del Bembo, vi appose dunque una ch'io vedrò d'abbreviare: " Uopo è voce latina, come embo; ma non so perché egli vi premetta un h, né credo quello che vale bisogno e non possa esser toscano; né che a usato uo' in luogo di uopo; né che uo' sia più provenpo: .... Bisogno in molti casi non può stare in luogo di - altri può provare e veder chiaro).... Ultimamente io come voglia il Bembo che Dante abbia usato uo' in luogo che nondimeno non niego io aver veduto scritto nel luogo Bembo in alcun libro) guastandosi fieramente il sentiitegniamo la predetta scrittura. Perciocché Beatrice aveva a Virgilio che dovesse andare a soccorrer Dante; a cui e, che è tanto disposto ad ubbidirla, che non fa mestiere nda in piú parole, per indurlo a ciò, dicendo: Piú non rirmi 'l tu' talento. Ma se leggeremo: Più non l'è uo' I tu' talento, le parole suoneranno che Virgilio di nuovo e gli sia commesso quello che già gli era stato commesso; on si fa punto ....e perché uo' non si trova usato né ltrove, né dagli altri, crediamo che Dante in questo 'abbia usato: né può essere uo' reputato piú provenzale piché i provenzali scrivono, non uo', ma ops in luogo di

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