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bero avuto forza da sollevare un vivo, perchè basta rammentare quello che il primo fa nel canto XXIV uscendo dagl' ipocriti, senza tener di conto che Caronte, come demonio, è dotato di potenza soprannaturale e quindi capace di ben altro che questo.

Potrei fermarmi qui e ritenere per il mio assunto abbastanza provata l'opinione dell' Ottimo, però il tragitto angelico è talmente entrato nella persuasione comune, e si è oramai tanto avvezzi a spiegar sì bene mediante esso il silenzio del poeta, che nessuno vi rinunzierà facilmente; ed io mi attendo di vederlo difeso con tutti gli arzigogoli immaginabili: non dispiaccia quindi che alleghi pure altre ragioni che confermino la nuova interpretazione.

Prima ragione sarebbe la risposta che dà Virgilio al lanoso barcaiuolo, a replica delle sue ultime parole.

Caron, non ti crucciare:

vuolsi così colà dove si puote

ciò che si vuole, e più non dimandare.

Il così ribatte precisamente le difficoltà e il cruccio di quello. Egli non vuol tragittar Dante; ebbene, Virgilio lo ammonisce che in cielo vogliono così, cioè che lo tragitti, ossia che tragitti un'anima viva. Caronte allora si acqueta: è convenuto dunque che lo passerà, ed infatti i poeti non si muovono dal punto ove stanno. La stessa risposta dà a Pluto nel canto VII; e come là Pluto a quelle parole s'abbioscia e non impedisce che scendano la balza che cinge il quarto cerchio, qui si deve ritenere che Caronte tacendo s'è dato per vinto nè farà più opposizione a riceverli nella barca. Non dimandare ha detto Virgilio al barcaiuolo, e Caronte non ha fiatato più. Taci ha gridato a Pluto, e Pluto s'è buttato per terra struggendosi in silenzio di rabbia. Or se Caronte non si rifiuta più di pigliarli nella barca, a che far venire un angelo per passare il vivo all' altra riva?

Seconda, sarebbe l'osservazione che fece Virgilio a Dante prima che questi cadesse privo di sensi :

Quinci non passa mai anima buona;

ẹ però, se Caron di te si lagna,

ben puoi sapere omai che 'l suo dir suona:

la quale vuol dire : « Siccome di qui non passano che tristi, se or che Caronte è costretto a dar passaggio a te, che non sei tristo, si cruccia, tu comprendi bene perchè lo fa.

Terza ragione sarebbe l'ultima parte dell' invettiva stessa di Caronte, la quale doveva fermarsi a non qui se alludeva veramente al transito miracoloso, (ammesso che l'abbia previsto); perchè la notizia che aggiunge dopo, cioè che occorreva un legno più lieve, è affatto aliena da questo modo di passaggio, accennando al bisogno di un mezzo di trasporto di cui l'angelo non avrebbe saputo che farsi.

Una quarta ragione si ricava dall'analogia di contegno fra Caron dimonio e gli stizzosi diavoli del canto nono. Perchè, come all'entrata di Dite, anche qui il rifiuto di lasciarlo proceder oltre doveva nettamente specificarsi, se davvero Caronte s'ostinava in esso; ed in questo caso una strapazzatina da parte del cielo non sarebbe stata fuor di luogo. Invece, nulla di tutto questo. Caronte borbotta dapprima un poco, ma poi s'acquieta inteso il verbo di Virgilio; però, secondo i commentatori, nega sempre di pigliar Dante nella barca. Ciò dà cagione a far incomodare un messo celeste, e tuttavia ei ne va impunito! Così dunque si oltraggia chi gira per i luoghi bui con salvacondotto divino? Alle porte di Dite non avvenne così.

Finalmente una quinta ed ultima ragione mi par che sia questa: Destatosi, Dante non si meraviglia affatto del trovarsi di là ha capito come la cosa sia andata, e poichè crede che il lettore l'abbia pur capita da quanto egli ha scritto nel canto precedente, non ricorre all'artifizio di chiederne a Virgilio e farsela narrare. Infatti dice senza alcuna sorpresa:

E l'occhio riposato intorno mossi,
dritto levato, e fiso riguardai,
per conoscer lo loco dov' io fossi.
Vero è, ch'in su la proda mi trovai
della valle d'abisso dolorosa, ecc.

Ciò che vorrebbe dire: «< Alzatomi, mi diedi a guardare attorno e m'accorsi che non era più nel luogo di prima: allora riguardai fiso per vedere dove mi trovassi (pensando che durante il tramortimento mi avessero portato alla sponda di là); ed appunto mi trovai dall' altra parte, sull'orlo della valle infernale ». Ma quel pensiero che io ho chiuso fra le parentesi non può ammettersi che cada in mente a Dante se non si ammette nello stesso tempo che non gli restava più alcun dubbio sui modi come effettuare il passaggio; e poichè ignorava la venuta dell' angelo, egli questo passaggio non può presumere che di averlo fatto per opera di Caronte,

e per conseguenza se, prima di tramortire, non erano appianate tutte le difficoltà dell' opposizione di costui, gliene doveva nascere una gran meraviglia, la quale invece ei non mostra punto. Ed io spiego, come ognun vede, il « vero è » << vero è in forma dichiarativa, quando, secondo la giusta spiegazione del prof. Puccianti, se si ammette il passaggio dell' angelo, deve intendersi in forma dubitativa: «Io non so come, il fatto sta che io mi trovai, ecc. ». Ma allora nascerebbe spontanea la domanda: «Se per Dante è sorpresa trovarsi, senza saper come, di là, perchè non ne domanda a Virgilio, egli sempre si curioso di tutto? E Virgilio, così preveniente col suo discepolo, perchè non gliene fa motto?» Il Puccianti si meraviglia di questo silenzio e del silenzio pure dei chiosatori a questo riguardo, e ne ha ben donde; ma la spiegazione che egli dà del tacere dei poeti non mi pare soddisfacente: « Vuol lasciare, egli scrive (1), questo particolare del suo passaggio nel mistero, ciò che conferisce tanto al sublime, specie nella parte miracolosa, nella macchina del poema sacro ». Ma, o io m'inganno, o da questo silenzio si ricava oscurità e dubbiezza, le quali non credo siano doti precipue del sublime; mentre questo, secondo il mio parere, poteva essere accresciuto da qualche accenno il quale, pur rendendone certi del modo come il passaggio si effettuò, ci lasciava incerti riguardo alle circostanze particolari di esso; essendochè non il silenzio del mezzo di passaggio, ma il modo rapido, impreveduto, come questo si praticò, può darci un'alta idea della potenza del messo celestiale, e quindi un'impressione sublime. Dunque, poichè in nessun altro punto del viaggio si ha esempio di un silenzio simile, poichè è inammissibile che Dante, rifiutandosi Caronte, non abbia avuto curiosità di conoscere in qual modo si trovi all' altra sponda; poichè si deve ammettere che la medesima curiosità si desta nel lettore e che era suo dovere di narratore di soddisfarla, se ne deve indurre che il tragitto avvenne nel modo più semplice e previsto, cioè per la barca.

IV.

A qualcuna delle precedenti ragioni si può opporre quanto s'è accennato più su, che Caronte, e neppur Virgilio, non poteva prevedere quel che poi avvenne, cioè a dire, il tremore, il lampo e il

(1) Fanfulla della domenica anno 1887 n. 6 e segg. Su questo argomento non ho consultato altri scritti perchè non ne conosco di posteriori.

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G. DEL NOCE

aggio miracoloso, e però entrambi agivano e parlavano come uesto non dovesse accadere. Sia pur concesso ciò; ma il poeta narra lo sa, e tanto più era suo dovere di farne cenno apso, quanto meno prima lo fa capire dai discorsi anteriori dei perggi. Non averlo fatto ci conduce ad una delle due seguenti lusioni. Se il passaggio miracoloso ci fu, Dante è colpevole di ta oscurità e incompletezza, unica di tal natura nel poema. Se si vuole ammetter questo, allora bisogna negare tal passaggio coloso. E siccome nulla d'altra parte s'oppone a far credere Dante, tramortito, sia stato collocato nella barca di Caronte e i trasportato all' altra riva, si può ritenere che la cosa sia avata in questa forma, che è la più semplice di tutte e non ci forza gere nel poema quello che non c'è scritto.

Suppongo che questa conclusione si raccolga pure chiarate dal complesso delle ragioni testè esposte, per la qual cosa onte, non avendo nessun passaggio angelico da prevedere, le le che grida, rivolto a Dante, del modo come questi convien faccia il passaggio e con che barca, le dice per rispetto a sè e o legno: è perciò vero che tutto il discorso ha quell' intonae ironica, di cui s'è già visto qual'è il significato recondito. volesse sapere il perchè di questa ironia, dovrebbe cercarlo nei ni che l'antico barcaiuolo sa che i vivi da lui per l'innanzi ttati avevano recato all' inferno, e nel suo or fermo proponito di fare in modo che questo più non avvenga. Se non che, torità di cui Virgilio è munito rompe il suo disegno, vince a resistenza e lo costringe a prestarsi al passaggio. Forse si da taluno che il linguaggio ironico non è proprio di chi parla impeti dell' ira; e tale era Caronte. Vero: però l'ironia di lui sta in quello che dice, ma in quello che sottintende; è nel iero e non nelle parole; e se si riflette che quel che disse lo ein suon rabbioso e tristo, si comprende di leggieri che si veriquesta progressione: dapprima dà semplicemente sfogo all'ira naturale gridando da lontano verso le anime e Dante, al quale inge di partirsi dai morti; e così facendo i suoi pensieri sono ciati: poi l'ironia s'insinua fra questi, ed è quando dice al ta che se, vuol passare all' altra sponda, passerà in altro legno, non in quello suo: disposto così l'animo allo scherno, anche guaggio si fa ironico e tale è l'ultima frase che gli esce di bocca. Riassumendo tutta la discussione che precede, la scena del aggio dell' Acheronte io credo che debba andare intesa così: te vede venir Caronte da lungi, il quale grida alle anime anziando il luogo d'orrore dove sta per tragittarle; indi si rivolge

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a lui in particolare intimandogli di scostarsi da quelle. Vedendo che non lo fa, soggiunge stizzito: « Che! tu vuoi dunque venire per forza nella mia barca? Perdinci! vedrai ch'io non ti ci farò entrare! Se vuoi, potrai passare di là con altro legno e per altra via: sì, va, vatti a trovare, se ti riesce, un' altra barca; già appunto a te ne occorre una più leggiera di questa mia ». Allora Virgilio lo ammonisce che è volere del cielo che Dante vivo passi per mezzo suo, e Caronte si tace acconsentendo. Le anime s'imbarcano e la navicella s'allontana. Mentre i due poeti ragionando attendono che la barca ritorni, trema la terra e scoppia improvvisamente una bufera violentissima: il tremuoto fa sudar freddo Dante di spavento, la luce vermiglia lo stordisce e lo fa cascar privo di sentimenti. Così tramortito, al ritorno di Caronte, vien collocato nella nave e tragittato alla sponda opposta, dove si riscuote ad uno scoppio di tuono: si alza, guardasi intorno e vede che non è più dove era prima; intende che è stato passato all' altra riva : affisa il luogo e riconosce di trovarsi sull'orlo dell' abisso infernale.

E qui riflettasi come s'intende bene l'aggettivo riposato, perchè gli occhi essendo stati chiusi per il non breve tratto di tempo che intercede fra l'assopimento e la scossa del risveglio, Dante può dire di aver veramente avuto agio di riposarsi.

Si può trovare una ragione, anzi più di una, a questo suo stratagemma del perdere i sensi. Primamente è da considerare che non importava che ci descrivesse il passaggio d'Acheronte al quale egli non volle dare alcuna importanza nell' architettura del poema: il contrario appunto del passaggio dello Stige, che per la ragione contraria vien descritto minutamente. In secondo luogo ci doveva parlare dell' accoglienza di Caronte, dello sbarco e di cose simili, tutte inutili. Terzo, e mi pare assai importante, prendendo posto nella barca insieme con le anime, le quali appartenevano a diverse specie di dannati, o taceva di esse ed era sconveniente, o ne parlava ed era fuori posto; perchè delle loro condizioni generali ne aveva già detto abbastanza, e di quelle particolari non poteva dir nulla essendo lì tutte le anime in condizioni eguali. Con la scappatoia del tramortimento tutto è soppresso: portato di là e destatosi comincia il suo viaggio di giro in giro e distinguendo colpa per colpa. Anche il Rambaldi pare che la pensasse così, perchè gliene dà lode: bene fingit se transivisse per somnum.

Una sola obbiezione si può fare a tutto quanto precede, ed è: «Se non v'era più difficoltà da parte di Caronte a che Dante mettesse piede nella sua barca, perchè i due poeti non vi discesero subito e si fecero trasportare assieme a quelle anime che

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