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Sì ch' ogni sudiciume quindi stinga :
Chè non si converria l'occhio sorpriso
D' alcuna nebbia andar davanti al primo
Ministro, ch'è di quei di Paradiso.
Questa isoletta intorno ad imo ad imo,
Laggiù, colà dove la batte l' onda,
Porta de' giunchi sovra il molle limo.
Null' altra pianta che facesse fronda,
O indurasse, vi puote aver vita,
Perocchè alle percosse non seconda.

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Conv. IV, 7.

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Conv. III, 15.

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Gerione (Inf., XVI, 106 e segg.): cf. v. 133. Sudiciume; la fuliggine lasciatagli dall' Inferno. Sudiciume, peccatum è la chiosa interlin. del Cod. Cass.; e la frase, che segue, sorpriso d'alcuna nebbia, spiega id est in peccato. Quindi, dal viso. Stinga (Purg., XII, 122, stinti), levi via; l'opposto di tingere. L'occhio sorpriso, abl. assol., con la faccia offuscata ecc.; sorpriso, sorpreso, come ripriso per ripreso (Purg., IV, 126), e miso (Inf., XXVI, 54; Par., VII, 21), e commiso (Purg., VI, 21). Primo ministro ecc.; il primo Angelo, che vedranno i Poeti, è quello che dalle foci del Tevere conduce le anime sante al Purgatorio (Purg., 11, 29); ma siccome tale incontro puossi dire fortuito, perchè col viaggio di Dante non ha nessuna relazione, e l'Angelo appena giunto ritorna via colla sua barchetta; dunque, secondo Benvenuto, deve credersi che l' Angelo qui accennato sia quello che siede in sulla porta del vero Purgatorio (Purg., IX, 78 e segg.), alla presenza del quale Catone sapeva che Dante di necessità sarebbe dovuto venire.

100-102. L'Alfieri li notò; e il Cesari: « che molli parole! che candor di lingua! che dolcezza di numero!» Quesi' isoletta; è quella sulla quale s'innalza il monte del Purgatorio. Ad imo ad imo, in fondo in fondo, rasente rasente all' acqua (così appiede appiè, Inf., XVII, 134, a randa a randa, ivi, XIV, 12, ed altri). — Porta, produce; il Tommaseo: « Di piante, ferre, in Virgilio e in altri » (quindi fertile d' un terenno assai producente). Molle limo; l'arena resa molle e fangosa per l'imbeversi dell' acqua; Lucrezio, cit. dal Cesari :

qua mollibus undis

Littoris incurvi bibulam pavit aequor arenam.

103-105. Null' altra pianta ecc.; L'Ottimo (con parole prese dal Lana): « chiude (esclude) ogni atto, fuor che umiltade, esser principio di purgazione. » Onde l'Anon. Fior.: «Per la pianta vuol dire e mostrare l'uom superbo;.... ciò è veruno superbo che mostri per le frondi, ciò è per le sue operazioni o dimostrazioni, la sua superbia di fuori, o che di quella superbia induri nell' animo, et diventì ostinato, non può quivi avere luogo. » Non seconda, non cede, non consente al cozzo dell' onde, come fa il giunco; dunque v'è un secondare, un cedere, che è vita e condizione necessaria di vita: chi nella vita, di contro a certi venti, non sa acconciarsi a fare come il giunco, finisce molte volte come le querce, che dal vento vengono svelte. In una Canzone attribuita a Guido Cavalcanti :

Quando con vento o con fiume contende
Assai più si difende

La sottil canna, che ben piega e calla,
Che dura quercia che non si dirende.

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106-108. L'Alfieri nota il primo. Poscia, compite le due azioni indicate. Reddita, ritorno; anco in prosa nel trecento. Reddita; il Postill. Cass. : <quasi diceret: non revertimini amplius ad peccandum. Lo Sol ecc. Nell' anima di Dante cominciava a nascere il Sol della giustizia, che non solo addita la strada (cf. Inf., 1, 18), ma acuisce l' intelletto nella scelta della migliore; quel Sole che più tardi avviverà tutti i gironi del santo monte (Purg., XIX, 37), e che al Poeta pienamente purificato rilucerà in fronte (ivi, XXVII, 133). - Che surge omai, ecc.; l'Antoneili: «La contemplazione del cielo, il colloquio con Catone, avevano già preso tanto di tempo, ch' era ormai spuntata l'aurora, e al sorger del sole mancava poco. » - Prendere ecc.; prendere il monte è quanto mettersi a salire: altrove per farsi innanzi, procedere (Purg., XXVIII, 5): prendendo la campagna; e anco del viaggiar per mare (Par., II, 7): L'acqua, ch' io prendo, giammai non si corse: e Inf., VII, 17: Prendendo più della dolente ripa. A più lieve salita, dove il monte più giaceva (cf. Purg., III, 76; Inf., XIX, 35), aveva ascesa men ripida.

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109-111. Così, avendo detto questo, sparì, scomparve. Su mi levai; finora era rimaso ginocchione (cf. v. 51). Tutto mi ritrassi, m' accostai vicin vicino (Inf., XXI, 97; cf. ivi, IX, 51). — E gli occhi ecc.; il farsi presso a Virgilio, e il guardarlo in silenzio, è azione eloquente più d'ogni parola, e dice l'affetto e la confidenza, non altrimenti che avesse detto: or che si farà? dite, è io ubbidirò.

112-114. L'Alfieri nota i due ultimi. Volgiamci indietro ecc.; verso qual parte? usciti dal tondo pertugio (Inf., XXXIV, 138) s' eran volti all' oriente (v. 19 e segg.), quindi a mezzodì (v. 22), poscia a settentrione (v. 29). Gli è in tal posizione che Dante s'avvide della presenza di Catone (vv. 29, 31 ), col quale avviene il colloquio di Virgilio. Se ora dunque son costretti di volgersi indietro, è, parmi, chiaro, che il discendere de' due Poeti alla marina fu in direzione da settentrione a mezzodì. - Dichina, va dolcemente scendendo (cf. Inf., XXVIII, 74, e ivi, XXX11, 56); — di qua, da questa parte; il che vuol dire che nelle altre parti non era così, dove il lembo della pianura, che circondava la scarpa del Purgatorio, si gettava in mare a forma di roccia stagliata; qui invece, dal lato meridionale, quel lembo per un tratto era un declivio, come quel terreno si fosse avvallato verso il mare; e questo declivio era puranco erboso (v. 124). Il Tommaseo opportunamente allegò il virgiliano (Buc., IX):

qua se subducere colles

Incipiunt, mollique jugum demittere clivo.

115-117. Notati dall' Alfieri. L' Alba (caso retto) l'ora (l'aura) mattutina, cioè, scrive il Cesari, « l'alba cacciava davanti a sè quel venterello, che suol muoversi innanzi al sole, e che increspando la marina, lo facea tremo

Egl. 427.

Che fuggia innanzi, sì che di lontano
Conobbi il tremolar della marina.

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Noi andavam per lo solingo piano
Com' uom che torna alla smarrita strada,
Che infino ad essa gli par ire invano.

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lare. Altri invece intendono che l'ora, nella quale ha principio il mattino, fuggiva innanzi all' alba, cioè che il cielo s' andava sempre più rischiarando dalla parte d' oriente (cf. Purg., XXIV, 145, 147; XXVII, 109). Lo Strocchi invece vorrebbe intendere ora per ombra secondo l' uso di Romagna; e si richiama al virgiliano

Humentemque aurora polo dimoverat umbram.

Il Cesari poi, che aveva sentimento d'artista più che non paja, scrisse di questi tre versi: «Se quegli otto versi del Sannazzaro (cf. qui appresso), furon pagati da' Veneziani 8000 scudi, tre milioni ne valgono questi tre : > e poi cita i bellissimi versi di Catullo:

Ac quali flatu placidum mare matutino

Horrificans zephyrus proclivas incitat undas,
Aurora exoriente, vagi sub lumina solis.

Rispetto ai versi del Sannazzaro, il Cesari ha preso qualche abbaglio, che si può correggere con quanto si legge nella Vita del Sannazzaro premessa da Giambattista Crispo alle Opere Volgari del Sannazzaro stesso (Padova, Comino, 1723); a pag. XLI infatti si legge : Negli Epigrammi argutissimo, e pieno di molto sale: e per un solo, fattone in lode del maraviglioso sito di Venezia, mi afferma il Signor Aldo Manucci, averne avuto in dono cento scudi per ciascun verso dalla Serenissima Repubblica; unico ornamento d' Europa, e vero ritratto dell' antica libertà d'Italia, e del prisco animo romano; avendo essa a gara degli antichi Augusti, onorato pur un suo nuovo Marone, ed insieme aggraditone la nobilissima città di Napoli, ed il suo Re. L' Epigramma (XXXV, lib. 1), benchè celebratissimo, non risparmierò di apportarlo qui, e fu tale:

Viderat Hadriacis Venetam Neptunus in undis
Stare Urbem, et toto ponere jura mari:

Nunc mihi Tarpeias quantumvis, Juppiter, arces
Objice, et illa tui moenia Martis, ait.

Si Pelago Tybrim praefers, Urbem adspice utramque :
Illam homines dices, hanc posuisse Deos.

Dunque i versi furon sei e non otto, e pagati non già 8000 scudi, sibbene 600; è però sempre un gran miracolo, ove si ripensi che fu scritto, che carmina non dant panem; a tal prezzo un poeta, oltre al panem, potrebbe procurarsi anche i circenses. Tremolar; qui del mare, che l'aura mattutina increspa; altrove delle frondi, che la stessa aura agita dolcemente (Purg., XXVIII, 7, 10); e del lume delle stelle (ivi, XII, 90), come pure del lampo (Par., XXV, 80). E l'Alamanni (Coltiv., V, 108): in bel tremolar con l'aure scherzi La canna e 'l giunco. Non so quanta ragione poi avesse lo Zecchini ne' sui Quadri della Grecia moderna (cap. XIX), libro lodatissimo dal Tommaseo, di veder qui la fosforescenza del mare, come ce la vede nell' altro verso di Virgilio, che riporta, splendet tremulo sub lumine pontus.

118-120. Notati dall' Alfieri. Solingo; senza abitatori; piano, pianura, (cf. v. 113; Purg., XII, 117). Com' uom ecc.; come il pellegrino, che accorgendosi d'avere smarrito la via, torna indietro, pensando tra sè che

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quel tratto di cammino per lui è fatica vana e tempo perduto (cf. Conv. IV, 7).

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121-129. Notati dall' Alfieri. Pugna; resiste ai raggi del sole (cf. Inf., XXIV, 4-6, ove si accenna all' opposta idea). Adorezza, è ombra, spira il rezzo (Inf., XVII, 87); cioè, scrive l' Ottimo, « andarono in luogo, ove per freddura e bassezza di luogo (— ad imo ad imo, v. 100-) lo raggio del sole non avea ancora risoluta la rugiada, quasi all' ultimo termine di quella isola,» (cioè laggiù colà dove la batte l'onde, v. 101). - Poco si dirada; i raggi del sole arrivando più tardi ad imo ad imo dell' isola, la rugiada vi dura più (della neve, che al venir de' giorni caldi si liquefà, cf. Purg., XXX, 85-90). Sparte, allargate, distese, per bagnarle di quella rugiada onde doveva lavare la faccia all' alunno. Soavemente; indica, a parer mio, troppo più che non leggermente o pianamente, come viene comunemente spiegato; mostra tutto l'affetto anzi la letizia di Virgilio nel compiere per Dante quell' atto di purificazione (cf. Inf., XIX, 130, nel commento). - Di sua arte, dello scopo di bagnarsi le mani; dacchè arte, osserva il Giuliani, è abito attivo con verace ragione, e qui dinota un effetto premeditato. - Lagrimose, molti intendono del momento presente, che cioè il Poeta lagrimasse ora di tenerezza all' amorevolle atto di Virgilio, o d' allegrezza di riacquistare il primo colore; altri che versasse lagrime di penitenza, necessaria a ben ricevere la misteriosa lavanda; onde il Postill. del Cod. Caet. : et bene disposui me ad poenitentiam recipiendam. Troppo meglio però parmi intendere col Giuliani del pianto versato attraverso l' Inferno, che misto alla fuliggine aveva lasciato i suoi segni, costituenti quel sucidume, che accennò Catone (v. 96). E bene osserva lo Scartazzini, che non pare che Dante piangesse più, dopo uscito dall' Inferno (salvo pevò Purg., xxx, 54). - Mi fece ecc.; levandomi il sucidume. Quel color ecc.; il mio natural colore, che l' Inferno colla sua fuliggine m'avea coperto; allegoricamente, restituendomi quel sereno lume della ragione, che per le viziose operazioni s'era in me andato offuscando; il qual lume, procedendo nella via del bene, l' aiutava a conseguire la piena drittura e sanità dell' arbitrio, che saran come condizione indispensabile al conseguimento della primitiva innocenza (Purg., XXVII, 140; XXXIII, 142-145).

Sito

130-132. L' Alfieri notò i due primi. Poi; dopo che m' ebbe lavato. deserto, solingo (v. 118). - Sue acque; perchè Dante nel Par., II, 7, parla dell'acqua, ch' ei corre, intendendo del suo soggetto poetico, l'Ottimo vuol pur qui intendere che nullo poeta trattò mai di quello luogo, che si trovi oggi scritto. Di tornar ecc.; infatti Ulisse, che co' suoi compagni tentò quel viaggio, non tornò nel nostro emisfero, ma vi lasciò la vita (Inf., XXVI,

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Quivi mi cinse, si come altrui piacque :
O maraviglia! chè qual egli scelse
L'umile pianta, cotal si rinacque

Subitamente là onde la svelse.

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133 e segg.). E nemmen dall' Inferno tornò mai alcuno (Inf., XXVII, 64-5), onde il dubbio di Catone e la maraviglia delle anime (Purg., vIII, 58 e segg.); e neppur i beati dal Paradiso (Par., X, 48; XV, 30).

133-135. Mi cinse, di quel giunco schietto (cf. v. 94 nel commento). Altrui, a Catone. Si rinacque ecc.; a imitazione di Virgilio (Æn., VI, 144), dove parla de' ramuscelli d'oro staccati da Enea :

primo avulso, et non deficit alter

Aureus, et simili frondescit virga metallo.

L' Ottimo, seguito in sentenza da alcuni moderni : « La grazia di Dio non si scema per avere più possessori, che cotanto quanto n'è tolta, altrettanto se ne rinnovella. Ma se il giunco è qui simbolo dell' umiltà, parmi richiedersi spiegazione a tale virtù più affine; onde è da stare o col Casini, che intende, che la grazia divina, onde procede all' uomo l' umiltà del cuore, è inesauribile; o meglio col Giuliani, che crede che questo risorgere dell'umile pianta o del giunco schietto, là dove fu svelto, mostra che la virtù radicata nell' umiltà non vien meno, e che dove questa in un cuore si trapianti, sempre nuove cagioni ad alimentarla sorgono dal nostro limo, miseri figliuoli d' Eva che siamo noi.... Fa duopo adunque che umilmente senta di sè, chi pretende a cose alte, acciocchè mentre s'innalza sopra sè, non cada da sè. Nè al sommo della virtù e della felicità si perviene senza aver prima gittato buon fondamento nella vera umiltà e disnebbiato l' animo dalle caligini del mondo. » Cf. Inf., 1, 118-123, nel commento.

Nota le terzine 1, 3, 4, 5, 7, 8, 9; 11 alla 14; 17 alla 24; 26 alla 32, 34; 38 alla 41; e le ultime due.

NOTA.

Di Catone, chiosando i versi 89-90, ho già detto in germe il mio pensiero; ma giova ora distenderlo alquanto; e vediamo innanzi a tutto quale opinione si avesse il nostro Autore della virtù e grandezza di Catone. Nel Conv., IV, 5: O santissimo petto di Catone, chi presumerà di te parlare? Certo maggiormente parlare di te non si può, che tacere; e seguitare Jeronimo, quando nel proemio della Bibbia, là dove di Paolo tocca, dice che meglio è tacere che poco dire. » Nella Monarchia (11, 5), dopo aver accennato ai Decii, sacratissimae victimae, qui pro salute publica devotas animas posuerunt (ut Livius, non quantum est dignum, sed quantum potuit, glorificando narrat), in tuono enfatico esclama: accedat et illud inenarrabile sacrificium severissimi libertatis tutoris M. Catonis...., qui ut mundo libertatis amorem accenderet, quanti libertas esset ostendit, dum e vita liber decedere maluit, quam sine libertate remanere in illa. E subito allega un tratto degli Offici di Cicerone, inteso non solo a scusare, ma a coonestare quel suicidio ; « In is quae de Officiis, Tullius de Catone dicebat: Non enim alia in causa M. Cato fuit, alia caeteri, qui se in Africa Caesari tradiderunt; atque caeteris forsan vitio datum esset, si se interemissent, propterea quod levior eorum vita, et mores fuerunt faciliores. Catoni vero dum incredibilem natura attribuisset gravitatem, eamque perpetua constantia roborasset, semperque in proposito susceptoque consilio permansisset, moriendum ei potius, quam tyranni vultus aspiciendus fuit. E ancora nel Convito (IV, 27): « Si legge di Catone, che non a sè, ma alla patria e a tutto il mondo nato essere credea. » E ciò Dante aveva letto in Lucano (Phars., 11, 283) :

Nec sibi, sed toti genitum se credere mundo.

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