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parla il Poeta, e per lui la più memorabile e dolorosa, accadde appunto fra l'ottobre e il novembre del 1301, e per la quale Dante diventò esule senza ritorno, così opina il dotto uomo doversi qui veder accenno a quel fatto. Io nol credo; qui si parla delle leggi in generale, e si biasima quel cotal siste ma ormai radicato in quella cittadinanza nel farle spensieratamente, senza cioè quel sano criterio e quel fine, che l'Autore stabilisce altrove (Mon., I, 13, 14, 16; II, 5; III, 15): di più; non parmi vero che il Poeta, per mostrare l'instabilità delle leggi Fiorentine, ricorresse specialmente ad un fatto, che produsse per lui tal legge e così ferma, che non fu revocata, con condizioni da lui rigettate, se non il dì 11 dicembre del 1316.

145-147. Del tempo che rimembre; nel tempo che i vivi si ricordano; dunque mettiamo i cinquant'anni precedenti; ed ecco i mutamenti e i fatti di maggior importanza: 1250; ritorno dei Guelfi in Firenze; 1251, esilio de' capi de' Ghibellini; 1252, si battono la prima volta i fiorini d'oro; 1258, cacciata dei Ghibellini da Firenze; 1260, dopo Montaperti ritornano i Ghibellini e sen vanno da Firenze i Guelfi; 1266, si fanno due Podestà; 1267, in conseguenza della morte di Manfredi e del prevalere del guelfismo in Italia, ritornano in Firenze i Guelfi, cacciando i Ghibellini; 1280, ritorno de' Ghibellini, e pace fra i due partiti; - 1282, abrogazione del precedente governo de' quattordici Buonuomini, otto Guelfi e sei Ghibellini, e istituzione de' Priori delle Arti; - 1293, istituzione del Gonfaloniere di Giustizia, e promulgazione degli Ordinamenti di Giustizia; - 1295, esilio di Giano della Bella; 1300, divisione de' Guelfi in Bianchi e Neri, ed esilio de' caporioni delle due parti. - Legge, moneta ecc.; cf. Inf., XXIV, 144. Membre; i cittadini sono le membra d'una città, rassomigliata ad un corpo (cf. Par.,XVI, 67-71). Nel Par., XVI, 84, paragonando Firenze ad un mare, ch'è in continuo flusso e riflusso, deplora il continuo mutar di cittadini, per cagione del prevaler l'un partito sull' altro.

148-151. Se vedi lume; se ben discerni, se ancor ti resta memoria ed intelletto (altrove s'hai fior d'ingegno, Inf., XXXIV, 26). Frequenti, più che in altri, in questo Canto i se, quasi perchè il discorso si posi per rilevarsi poi più forte, nota il Tommaseo, come la natura stessa richiede, e come insegna l'arte consumata a' veri maestri; cf. vv. 93, 118, 138. — Inferma; e a pecora inferma non solo, ma del suo contagio infettare gli altri udimmo più addietro paragonata Firenze (cf. vv.127-129). Firenze, simile a una malata incurabile, cercava refrigerio al suo dolore col volgersi nel letto or su questo or su quel lato, cioè dandosi in balìa or di questo or di quel partito, sperandone salute. Con dar volta; con volgersi.. Scherma; fa schermo, ripara.

Nota le terzine 8, 12, 15, 17; 19 alla 27; 29, 30, 36, 37, 39; 41 alla 46; 48 col le ultime.

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Conv. IV, I.

CANTO VII.

5

Posciachè le accoglienze oneste e liete
Furo iterate tre e quattro volte,
Sordel si trasse, e disse: Voi chi siete?
Prima ch'a questo monte fosser vôlte
L'anime degne di salire a Dio,
Fûr l'ossa mie per Ottavian sepolte.
Io son Virgilio; e per null' altro rio
Lo ciel perdei, che per non aver fè:

I

2

A chi la prima parte del Canto paresse lunga, scrive il Tommaseo, pensi che Dante, non senza perchè, si compiace nella lieta e riverente agnizione d' uomini singolari; onde la sua Commedia in questo è più dramma che i drammi troppo serii del Federici.

-

1-3. Il Poeta, dalla fatta digressione, riporta il lettore all' argomento che glien porse occasione, cioè al vicendevole abbracciarsi di Sordello e di Virgilio (cf. Purg., VI, 75). Accoglienze; il ricevimento, espresso negli abbracciamenti. Oneste e liete, esprimenti bensì letizia, ma non senza gravità, qual si conveniva a tali personaggi. - Iterate, ripetute. Tre e quattro volte: tre e quattro che fanno sette, dice l' Ottimo, numero di grande effetto; e qui adorna l' Autore con aritmetica il suo stile. Ma già è meglio intendere il numero determinato per l' indeterminato, il terque quaterque essendo frequente ne' Latini in egual senso. Si trasse, s' arretrò, si tirò indietro (cf. Purg., III, 91), chiedendo a Virgilio chi egli sia; così spiegano comunemente; ma io direi che se Sardello dapprima inchiese ambedue i Poeti del loro paese e della vita (Purg., VI, 70), e se ora Dante non fa altro che riappiccare, dopo la digressione, il discorso di quel fatto, ragion vuole che s' intenda questo voi chi siete non detto per onore verso Virgilio ma rivolto ad ambedue; e come là Virgilio incominciò a rispondere di se, e così qui.

4-9. L'Alfieri nota il secondo. Prima ecc.; le anime de' giusti, prima della Redenzione, andavano dopo la morte al Limbo de' SS. Padri, che, in sostanza, corrisponde al Purgatorio attuale, in quanto le anime de' giusti dovean ivi, oltrechè aspettare il Redentore, purificarsi; e suppone Dante che dalla Redenzione in qua alle anime uscenti di questa vita con qualche lieve peccato, o colla penitenza de' peccati insoddisfatta, sia stato mutato luogo, e dato loro questo monte, che è scala per ascendere al Cielo (Purg., XXI, 21). — Degne ecc.; cioè in grazia con Dio, e perciò degne di venire

Quandochesia alle beate genti

(Inf., I, 120), facendosene degne colla purificazione del Purgatorio (Purg., 1, 6). Per Ottavian ecc.; da Cesare Augusto, che s'appellava Caio Giulio Cesare Ottaviano. Donato, nella Vita di Virgilio: Translata iussu Augusti Virgilii ossa Neapolim fuere, sepultaque ecc. (cf. Inf., 1, 70; Purg., III, 27). - Rio, colpa, reità (cf. Inf., IV, 40); come da meus e Deus abbiam Dio e mio, cosi rio da reus; rio, sostantivo astratto; e nel concreto, rio per dannato (Inf.,XXII,64). Lo Ciel ecc.; la salvezza eterna, il paradiso. Per

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dei; quindi perduta gente i dannati (Inf., III, 3; cf. ivi, IV, 44 ; XXVII, 128). - Per non aver fè,

La fè, senza la qual ben far non basta

(Purg., XXII, 60); e questa è verità di fede, nè vale argomentarci contro, ma giova invece umiliare il nostro intelletto, e credere fermamente che così sia (veggasi tal quistione largamente trattata nel Par., XIX, 70-105). E siccome Virgilio morì l' anno 19 a Cr., è chiaro che qui si parla, come nota il Lombardi, non dell' intiera fede nostra, ma della credenza ferma e indispensabile a salvarsi nel venturo Messia (cf. Par., XX, 105); il qual duplice modo di credere in Cristo venturo o in Cristo venuto Dante chiama l'uno e l'altro aspetto della fede (Par., XXXII, 38), e gli porge argomento a dividere il Paradiso in due grandi sezioni, de' Beati dell' antico e del nuovo Testamento (ivi, 1-42). E Dante tocca altrove la necessità indispensabile di questa fede all' eterna salvezza, e rafferma che l' umano intelletto non ci può capir nulla, e non ha altro da fare che credere alla parola di Dio, che il proclamò nella Santa Scrittura (Par., XIX, 82-84), dacchè la fede s'appoggia alla Rivelazione (cf. Mon., III, 4; cf. Summ. Th., 1, 1, 8, ad 2: II II, 172, 6 ad 1), e scrive (Mon., 11, 8): « Quaedam autem sunt Dei iudicia, ad quae humana ratio, etsi propriis pedibus pertingere nequit, elevatur tamen ad illa cum adiutorio Fidei et eorum quae in sacris Litteris nobis dicta sunt; sicut ad hoc : « quod nemo, quantumcumque moralibus et intellectualibus virtutibus, et secundum habitum et secundum operationem perfectus absque Fide salvari potest : dato, quod nunquam aliquid de Christo audiverit. Nam hoc Ratio umana per se iustum intueri non potest, Fide tamen adiuta potest. Scriptum est enim ad Hebraeos: « Impossibile est sine fide placere Deo. E nel lib. III, cap. 3, dei Santi del Vecchio e del Nuovo Patto, dice che in Filium Dei Christum, sive venturum, sive praesentem, sive iam passum crediderunt, et credendo speraverunt, et sperantes charitate arserunt, et ardentes Ei cohaeredes factos esse mundus non dubitat.

10-15. Notati dall' Alfieri. Come chi d' improvviso vede innanzi a sè una cosa che attira la sua maraviglia, resta incerto se quella cosa sia veramente, o non sia invece un sogno della sua fantasia, così rimase Sordello,credendo e non credendo che colui fosse veramente Virgilio. Qual è colui ecc.; di frequente nelle comparazioni, facendovi corrispondere tale o cotale (cf. Inf., I, 55; II, 127: VII, 13; VIII, 22; XII, 22; XVII, 85; XVIII, 10; XIX, 28; XXI, 7, e spessissimo). Subita, inattesa, improvvisa. -Si maraviglia, di quella cosa improvvisamente apparsa (ma la maraviglia può esser fonte di grandi cose, per le ricerche, alle quali induce il nostro intelletto: propter admirari, coepere philosophari, Quaest. Aq. et Terr., § 20).—Ell' è, non è; la vede, ma perchè la cosa gli sembra strana,dubita che non sia un sogno; sta insomma tra il sì e il no; affinità a questo luogo può avere il Purg., X, 59-63, e Par., XIV, 70-72. E tale in Sordello fu la maraviglia, e la riverenza che tutto il dominava, che non si prende più pensiero di sapere chi fosse il compagno di Virgilio; e tutto raccolto nel suo grande compatriota, non s' accorge che Dante era ancor vivo; il che serve a creare un altro bell' incidente, che vedremo in appresso (VIII, 61-63). · · Chinò ecc.; abbassò gli occhi in atto di riverenza. Umilmente; non più altiero e disdegnoso (Purg., VI, 62),

XXII,

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20

.

E abbracciollo ove il minor s'appiglia.
O gloria de' Latin, disse, per cui
Mostrò ciò che potea la lingua nostra;
O pregio eterno del loco, ond' io fui,

Qual merito o qual grazia mi ti mostra?
S'io son, d'udir le tue parole degno,

Dimmi se vien d'Inferno, e di qual chiostra.

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6

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ma in atteggiamento umile e di grande rispetto. Ritornò ecc.; perchè poco prima se n' era tratto (v. 3). · Abbracciollo ecc.; e profondamente inchinandosi, abbracciò Virgilio in quella parte ch'è dalle ginocchia in giù, che è il luogo dove il fanciullo appiglia sè; le cosce, intende il Lana; sotto le braccia, l' Anon. Fior., il Buti ed altri, dov'è usanza che abbracci il minore in dignità o in età; una scena consimile tra Stazio e Virgilio (Purg., XXI, 130-131) dà luce di senso a questa. E si noti che prima, nol conoscendo, Sordello abbracciò famigliarmente il concittadino, come si fa tra uguali; ora invece fa riverenza non solo al poeta sommo, ma alla gloria di tutti gli Italiani.

16-21. L' Alfieri nota il 19 e il 20. O gloria de Latin; o gloria di noi Italiani, che tanto qui vale la voce Latini, come in altre parti della Commedia e nelle altre Opere dell' Autore (Inf., XXII, 65; XXVII, 33; XXIX, 88 e 91; Conv., IV, 28; Vulg. El., 1, 12, 15, e spesso; Epist. VIII, 11, gloria Latinorum chiama la Santa Sede). - Mostro ciò che potea ecc.; per merito del quale la lingua latina fè palesi tutte le sue mirabili facoltà e attitudini artistiche, che nessuno più di Virgilio seppe mostrar per effetto (cf. Purg., XXI, 94 e segg.). Lingua nostra, la lingua latina, perchè non solo lingua de' nostri antenati, ma perchè anche ai tempi di Sordello era in molt' uso tuttavia; nè l'italica o volgare poteasi ancor dire che in tutto l'avesse sostituita; ma non credo affatto vero quanto afferma il Tommaseo, che Dante del latino, dell' italiano e del provenzale fa tutt' una lingua, se è vero che è sua l'opera de Vulgari Eloquentia. Altrove chiama Virgilio nostra maggior Musa (Par., xv, 26). Nè anche parmi storicamente sostenibile la sentenza del Lombardi, che dicendo potea, accennata a' tempi suoi già morta; › quando sappiamo che Giovanni Del Virgilio fece dolci rimbrotti a Dante per essersi accinto a scrivere in volgare la Commedia. — Pregio eterno di Mantova, ov' io pur nacqui. Il Cesari: « Quanta lode in tre versi ! e che nobiltà di lingua! e quanta dolcezza alta di numeri!» Qual merito mio, o qual grazia speciale di Dio. Il Buti: « Quasi dica Sordello: «Io non abbo meritato di vederti; chi m' ha conceduto tanta grazia e tanto meritato hae per me ch' io ti vegga?» — D' inferno ecc.; Sordello sapeva già che Virgilio aveva perduto il Cielo (v. 8); ond' è quanto a dire: se vieni dall' Inferno, dimmi di qual parte o cerchio di esso; è precisamente quello che altrove d' alcuni illustri poeti chiede Stazio a Virgilio (Purg., XXII, 99) :

Dimmi se non dannati ed in qual vico :

ond' è da rifiutarsi la lez. della Nodob., seguita da parecchi, o di qual chiostra, che farebbe credere che oltre ai tre regni oltremondani delle anime già noti, Paradiso, Purgatorio e Inferno, altro ve ne potesse essere. Nè bolgia di chiostra spiegherei col Tommaseo, chè essendo le bolge spartizioni dell' ottavo Cerchio, questo solo comprenderebbe Sordello, lasciando in disparte gli altri otto. Ma a me viene un sospetto, che cioè il Tommaseo, sì dotto e acuto, abbia detto bolgia in luogo di cerchio per una semplice svista, come ho potuto rilevare altra volta. Vero è che Dante altrove usa chiostra

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Per tutti i cerchi del dolente regno,
Rispose lui, son io di qua venuto:
Virtù del Ciel mi mosse, e con lei vegno.
Non per far, ma per non fare, ho perduto
Di veder l'alto Sol che tu disiri,

E che fu tardi da me conosciuto.

Luogo è laggiù non tristo da martiri,
Ma di tenebre solo, ove i lamenti

Non suonan come guai, ma non sospiri.

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ΙΟ

per bolgia (Inf., XXIX, 40), ma si dà premura di aggiungervi di Malebolge, per ben distinguere.

22-24. L'Alfieri nota il primo e il terzo, avendo già detto ch' era dannato (v. 8), soggiungendo ora Virgilio che aveva attraversato tutto l' Inferno, è lo stesso che dire ch' egli era della prima chiostra ovvero cerchio. - Dolent regno; l' Inferno, come altrove città dolente (Inf. 111, 1). - Di qua; al Purgatorio, essendo l' Inferno, al di là dell' Acheronte (Purg., 1, 88). Virtù.... mi mosse.... vegno; chi mi mosse fu virtù celeste per mezzo di Beatrice; la Donna gentile mosse Lucia (Inf., II, 101), Lucia mosse Beatrice (Par., XXXII, 137); ma essa ardendo di vera carità per la salute di Dante, ben si può dire che fu Amor che la mosse (Inf., 11, 72); e Beatrice, strumento e trasmissiera della virtù celeste, mosse Virgilio, che fa il suo viaggio col sussidio di tale virtù scendente dell' alto (Purg., 1, 68). Perciò la frase risulta a un dire: Donna del Ciel mi muove e regge (Purg., I, 91); ovvero : men vo colla virtù che dal ciel viene (Purg.; III, 98).

25-27. L' Alfieri notò fino al v. 33. Non per far; non per aver fatto il male, per aver operato contro alle virtù morali (cf. v. 36); — ma per non far, ma per non essermi vestito le tre sante virtù, Fede, Speranza e Carità (vv. 34-35); cioè essendo prima del Cristianesimo, non adorai debitamente Iddio (Inf., IV, 37-38), non avendo operato secondo il lume di esse, che all' opere danno valore, essendo esse necessarie all' eterna salute (cf. vv. 7-8): qui non crediderit, condemnabitur (Marc., XVI, 16; cf. Mon., II, 8). L'alto Sol... ecc., Iddio (cf. Conv., 111, 12), l'alto Lume che il desio dell' anime purganti solo ha in sua cura (Purg., XIII, 86-87). Tardi; troppo tardi, sol dopo morte, quindi invano (cf. Inf., XX, 120).

28-30. Loco ecc., il Limbo (cf. Inf., IV, 25 e segg.).— Laggiù, all' Inferno. Non tristo da ecc.; non triste per cagione di tormenti sensibili; v' era duol, ma senza martiri (Inf., IV, 28); il da è di'quelle eleganze venuste, che certi elegantissimi diversi da Dante non userebbero; ma l'usa il povero popolo, che senza pur sospettarlo ha tanto senso di eleganza; e s'ode di spesso quasi muore dal dolore; pallido dall' affanno; occhi rossi dal lagrimare, e via. Il Cesari dice ch'è una bella proprietà di nostra lingua, che vien dalla madre, e reca Catullo: purpureaque procul nantes (le onde) a luce refulgent. Tenebre ecc.; in quella guisa, che parlando delle anime del Purgatorio, affine di starsene all' idea cattolica che ammette il fuoco, le disse color che son contenti nel fuoco, benchè poscia il fuoco ei ponga in un sol Cerchio; così qui, parlando del Limbo in genere, che nell' idea di dannazione e di luogo participa dell' Inferno, lo dice luogo di tenebre, benchè il luogo speciale, dove Virgilio coi Savi dell' antichità era relegato fosse sorriso dalla luce (cf. Inf., IV, 67 e segg., e il passo dell' Angelico, ivi, 25-30). Non suonan; non si manifestano in voci dolorose, in istrida e pianti, come

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