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non credo i Tedeschi in grado di esserci maestri di religione e di filosofia. E ciò, perchè hanno perduta l'una e l'altra, e si trovano, come ho già accennato, in condizione simile a quella dei Francesi. Non dispiaccia ai Tedeschi questa mia sentenza, la quale non fa alcun torto alla loro dottrina, nè al loro ingegno; anzi per qualche rispetto, come toccherò altrove, onora l'animo e la mente loro. Imperocchè essi hanno smarrite le loro religiose credenze in virtù della logica; e per lo medesimo fatto hanno ridotto la filosofia allo stato, in cui si vede al presente. La filosofia non è possibile, se non è fondata e presidiata dalla religione: questa è la base, quello il tetto dell' edifizio. Lutero colla sua ribellione spiantò le fondamenta, e i Tedeschi suoi coetanei furono molto colpevoli nel lasciarsi sedurre all' infelice facondia di quel monaco forsennato. Ma dappoichè alla sola fede possibile venne sostituita quella larva ingannevole, che si chiama protestantismo, le succedenti generazioni sono degne di scusa, se lavorando sulla mobile arena, tutto il loro ingegno e tutti i loro sforzi valsero solo ad innalzare edifizi soggetti ad andare in fascio, dinanzi agli occhi medesimi degli edificatori. La filosofia tedesca fino ai tempi di Emanuele Kant fu in gran parte cattolica, benchè coltivata da protestanti, perchè la scienza razionale essendo in apparenza separata dalla teologica, egli era naturale che nel primo periodo della nuova eresia, i suoi seguaci filosofassero più o meno, secondo il metodo antico. Laonde il luterano Leibniz 1) si mostra cattolico speculando, come il cattolico Descartes è protestante nelle sue meditazioni. E dal Descartes appunto nacque l'applicazione dell' eterodossia religiosa alle cose filosofiche da lui la prese il Kant, che introdusse la

1) Scrivo Leibniz (e non Leibnitz, come oggi si usa dai più), perchè, se ben mi ricordo, tal è l'ortografia usata da quel valentuomo, il quale è probabile che sapesse scrivere il proprio nome.

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riforma razionale nella sua patria, donde il seme ne era uscito; giacchè il Kantismo è il Cartesianismo condotto alla sua perfezione. Fra i filosofi che fiorirono dopo il Kant, gli uni combatterono la dottrina critica: filosofarono da sè rinnovarono sistemi antichi : tentarono di crearne de' nuovi; ma produssero effetti poco notabili e la prova si è, che in quella nazione studiosissima, dove ogni idea feconda, germina e fruttifica, non fecero scuola, e rimasero isolati. Gli altri all' incontro, movendo dalla psicologia dei Kantisti e proponendosi di creare una ontologia a rovescio, riuscirono al panteismo; il quale, modificandosi successivamente e pigliando varie forme, partori quel ciclo panteistico, che incominciato col Fichte, e tuttavia durante, è ciò che per ordinario s'intende sotto il nome di filosofia germanica. Ora se si esamina il valore scientifico di questi vari periodi, si troverà grandissimo quello del primo tempo, e della scuola leibniziana; imperocchè io tengo per fermo che la vera filosofia, considerata nella sua sostanza e non negli accessorii, finisse in Europa col Leibniz e col Malebranche. Perciò chi voglia rinnovare la scienza può muovere dal punto, in cui que' due grandi la lasciarono; ma dee limarla ed accrescerla; perchè l'antico capitale del vero può tornare in credito, se non arricchito di nuovi augumenti; nè la vecchia filosofia sarebbe perita, se non fosse stata difettuosa. Emanuele Kant è un grandissimo psicologo; ma la sua dottrina teoretica è radicalmente viziosa; anzi rigorosamente parlando, non è dottrina. Quanto ai panteisti, non si può negar veramente che non abbiano fatto prova di molto ingegno, e non si trovi qualche cosa di buono nelle loro opere. Ma il panteismo, che le informa, oltre all' essere essenzialmente falso, è la sostanza della eterodossia filosofica; la quale non merita a rigore il nome di scienza, come l'eresia non può vendicarsi quello di religione. La verità sola ha il privilegio di esser filosofica, cioè ideale : l'errore è una mera negazione, che non può vestire le apparenze del positivo, se non sostituendo vuote

negazioni o frivoli fantasmi alle idee. Perciò il sistema dei panteisti è piuttosto una poesia o un' algebra di concetti, che una dottrina filosofica. Dal che nasce la corta fortuna di tali sistemi, come si vede oggi in Germania, che dopo avere sciupato un immenso ingegno nel fabbricarne, ed esausta in quest' opera una ricca immaginativa, si trova ora poverissima nella sua opulenza, e fra venti o trenta teoriche filosofiche ch' ella possiede, non si può quasi dire che abbia una mezza filosofia.

Gl' Italiani, se vogliono essere filosofi, se aspirano alla gloria di restituir la vera filosofia all' Europa, che ne manca da gran tempo, debbono confidarsi in Dio e nel proprio ingegno, non negli ammaestramenti e negli esempi forestieri. Io ho molta fiducia nel valore dell' ingegno italiano; dico dell' ingegno dei pochi, poichè la moltitudine è in Italia come altrove, e osserva il costume delle pecore, che camminano alla cieca, addossandosi le une alle altre, senza inchiedersi, se la via eletta conduca alla meta o in precipizio. Il culto della vera filosofia ricerca che si rappicchi il filo della vera scienza, che se le dia maggior precisione di principii e di metodo, che il patrimonio degli avi si arricchisca di nuove deduzioni e di applicazioni utili. Esporrò il mio modo di vedere su questi vari punti nel corso del presente trattato. Dal quale apparirà che la scienza ontologica, in cui consiste la sostanza della filosofia, è perduta, e bisogna rifarla di pianta, pigliandone i principii da chi solo può darli. Ma se ella non può logicamente fondarsi altrove che in sè stessa, l'ingegno vi può essere preparato fino ad un certo segno dalle ricerche psicologiche. Intorno alle quali, se si eccettua il Leibniz, e per qualche parte il Kant, credo che i giovani italiani troveranno aiuti più sicuri e più efficaci in casa loro, e nella scuola scozzese, che presso i Tedeschi. Si avvezzino anche a pigliare dimestichezza coi nostri filosofi del medio evo e dei secoli appresso, fino al Vico; non per seguirlo in tutto, ma per inspirarsene, per

dare fecondità e calore ai loro pensieri, accostandoli alla viva fiamma dell'antico ingegno italiano.

Il quale si manifesta non solo nella verità e nella bontà delle cose che si dicono, ma eziandio nel modo, con cui vengono espresse. La geometria e la scultura dello stile filosofico non si trovano, credo, presso alcun popolo moderno in grado così perfetto, come ne' nostri scrittori; dico quelli che sono veramente nostri, pel loro modo di pensare e di sentire, non per la sola desinenza dei vocaboli. Perciò è tanto più da farne stima e da esserne geloso, che questa dote è quasi un nostro privilegio. Aggiungasi che in ogni genere di dottrina, la lingua e lo stile, di cui il parlante e lo scrivente si servono, importano assaissimo; e più ancora in filosofia che nelle altre materie. Aprirò adunque il mio sentimento intorno a questo soggetto, benchè il parlare di lingua nel preambolo di un'opera scientifica possa dar meraviglia ad alcuni, e far loro augurar poco bene dell' opera stessa. L'occuparsi delle parole al dì d'oggi fa segno di poco spirito, di animo angusto, di scarsa dottrina: non è uomo di conto, non merita il nome di erudito e di filosofo, se non chi parla e scrive da barbaro. E ciò si dice da taluni dei nostri compatriotti, che non apprezzano fuori d'Italia, se non gli artefici di parole. Ma io non mi vergognerò mai d' imitare, secondo il mio potere, i migliori antichi, diligentissimi cultori del loro idioma, e di seguir l'esempio di Cicerone, che nei prologhi e nel corso delle sue opere tocca spesso della lingua, e mostra che assai se ne curasse. Il vezzo contrario non mi sbigottisce. Quando credo di aver la ragione e gli uomini più illustri, più giudiziosi da mia parte, non mi pesa l'aver pochi compagni, e l'andare a ritroso della corrente..

Il negare una verità, in grazia di un'altra, è la pecca solita degli spiriti superficiali. Che le cose importino più che le parole,

è un vero così evidente, che par quasi ridicolo il dubitarne; benchè l'opinione e la pratica contraria non sia troppo rara, come avrò occasione di toccare altrove. Gli scrittori, che vanno a caccia di frasi, fanno pompa di stile, sottopongono i pensieri agli artificii rettorici, sono, non che vani, nocivi, e pregiudicano al vero sapere, spacciando in cambio di cose, sogni e frivolezze. Segue forse da ciò che non si debba fare alcun caso della elocuzione, e sia bene il trascurare lo studio della lingua? No, certamente : questo eccesso, senza pareggiare gl'inconvenienti dell' altro, sarebbe pur molto dannoso; perchè se l'eleganza indotta non è di alcun pro, la dottrina inelegante non porta a gran pezza quei frutti, di cui è capace. Se per difetto di educazione letteraria, e ludibrio di fortuna, un uomo dotto non ha potuto acquistare l'arte malagevole dello scrivere ornatamente, sarebbe ingiusto e ridicolo l'accusarnelo: dica solo cose vere e nuove con semplicità e chiarezza, se non può con purità ed eleganza; egli avrà tuttavia largamente pagato il suo debito verso la patria. Chi oserebbe biasimare il Vico, per le imperfezioni del suo stile? Ma se l'uomo anche dottissimo vuol convertire in pregio il suo difetto e vantarsene, invece di dolersene, egli è degno di censura. Se altri, senza pur possedere il vantaggio di una squisita dottrina, vuol mettere in regola, che si dee scrivere come viene, che ciascuno può modificar la lingua a suo talento, che il dettare è un' arte, che manca di leggi stabilite e dipende solo dal capriccio dell' artefice, egli è degno di riso. Io ho sempre notato che gli sprezzatori della lingua in teorica, se ne mostrano ignoranti nella pratica; e che all' incontro chi la sa, ne confessa agevolmente l'importanza. Or se la lingua è di gran momento, egli è necessario che in ogni paese culto si trovino letterati, che ne facciano special professione, e la trattino come oggetto principale, o unico, déi loro studi. L'opera di costoro è onorevole e utilissima; e io li giudico tanto benemeriti della patria, quanto importa a questa l'avere uomini,

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