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al Comune di San Gemignano nel 1299, col quale fermò un accordo concernente la Taglia (lega) guelfa. Più volte fu del Consiglio di Stato detto il Consiglio speciale, e finalmente nel 1300, il 15 giugno, fu eletto priore.

Le fazioni de' Bianchi e de' Neri passarono da Pistoja in Firenze. Ai Bianchi si aderirono i Cerchi, ai Neri i Donati. Fatte pubbliche le private discordie, non andò guari che le due fazioni vennero al sangue. Di che i Priori, e tra essi Dante, ad acchetar quei tumulti, che mettevano a pericolo lo Stato, confinarono Corso e Sinibaldo Donati, Gentile e Torrigiano e Carbone de' Cerchi, con altri principali. Di qua i risentimenti, gli odj e le vendette. Stettero costoro poco ai confini. I Neri, tornati che furono, posero l'animo ad opprimere gli avversari. Ed avvenendo che Carlo di Valois, fratello del re di Francia, passasse in quei dì di Toscana, per alla volta di Roma, donde intendeva poi muovere al conquisto della Sicilia, gli chiesero di andare a Firenze col titolo di Paciere e di voler riformare lo Stato per modo che la parte guelfa si assodasse e fosse sicura da ogni pericolo. I più savi del reggimento, attinto il fine dei Neri, mandarono quattro ambasciatori, de' quali era Dante, a Bonifazio VIII perchè svolgesse Carlo dalla malaugurata impresa. Se non che il Pontefice s'intendeva già con Corso Donati e consorti; pertanto dando parole li tenne tanto a bada, che il Valois, già entrato a Firenze, francò i turbolenti a manomettere la città.

Dante si partì allora da Roma e corse verso Toscana. Ma giunto a Siena, intese che i suoi nemici, accusatolo d'essere ghibellino e di aver contrariato la venuta del Principe francese, gli avevano assalito e guaste le case e le altre possessioni; e che Cante de' Gabbrielli, allora podestà di Firenze, lo aveva citato in giudizio, come reo di baratterie e, sotto false cagioni, condannatolo in contumacia, il 24 gennaio 1302, alla multa di cinquemila lire di Fiorini piccoli. Dante nè comparve, nè pagò l'indebita ammenda; e il Gabbrielli il 10 marzo, mostrando tenerlo per reo confesso, scoccò sua sentenza atroce, condannandolo ad essere arso vivo, quando cadesse nelle forze del Comune. Gli esuli procurarono di accozzarsi e far causa comune. Si assembrarono primamente a Gargonza, castello degli Ubertini, a mezza strada tra Siena ed Arezzo, e fermarono di collegarsi coi Ghibellini di Toscana e di Romagna, e di stabilire la loro sede in Arezzo. Qui radunate le forze loro, fecero capitano della lega Alessandro da Romena e nominarono dodici consiglieri, de' quali fu Dante, ed in quella città di speranza in speranza dimorarono sino all'anno 1304.

Vedendo non poter rientrare in patria per via d'accordi, ricorsero alle armi. E messi insieme 1600 cavalli e 9000 fanti (e v'erano i Ghibellini di Arezzo, di Romagna, di Bologna e di Pistoia) venendo giù celeremente pel Casentino e pel Mugello,

giunsero improvvisi la sera del 21 Inglio alla Lastra, presso a Firenze a due miglia. Guidava quelle schiere Baschiera della Tosa, il quale per impeto giovanile commise errori che fecero fallire l'impresa.

Dante, checchè altri abbia detto in contrario, non si trovò a questo fatto; forse non confidava troppo nei duci. È probabile che egli allora fosse presso Scarpetta degli Oderlaffi a Forlì, donde poi si trasferì a Bologna. In questa città, fiorente di studj, crebbe il suo sapere.

Dipoi andò a Padova, e v'era il 27 agosto 1306. In questo giorno, secondo si ritrae da un documento tuttora in piè, egli fu testimonio ad un Contratto rogato in casa di donna Amata Papafava. Pochi giorni appresso passò in Lunigiana, ove ebbe cortese ospizio da Moroello Villafranca e da Franceschino di Mulazzo; marchesi Malaspina, co' quali si strinse di vera ed affettuosa amista. Volendo essi terminare le contese politiche che da gran tempo avevano con Antonio vescovo di Luni, fecero Dante loro procuratore a trattare la pace con lui. Ed egli con soddisfazione delle parti la conchiuse, apponendo la firma (insieme al Vescovo) all'atto solenne che il 6 ottobre 1306 fu rogato a Castelnuovo dal notajo Parente Stupio.

Dalla Lunigiana passò Dante nel Casentino, che tutto allora era posseduto da' conti Guidi, ed in vari di quei castelli dimorò; e più specialmente in quello di Poppi, o piuttosto di Pratovecchio, presso il conte Guido Salvatico. Credono alcuni che in questo tempo passasse pure nel Montefeltro, ove signoreggiavano i Faggiuolani; e facesse alcuna dimora nel monastero di Fonte Avellana e nelle case de' Raffaelli di Gubbio. Nella primavera del 1309 opinasi che nuovamente fosse in Lunigiana, e vuolsi che a frate Ilario, superiore del monastero del Corvo posto presso la foce della Magra, consegnasse una copia della prima Cantica del suo poema. Vuolsi pure che dalla Lunigiana movesse alla volta di Parigi, ove, secondo il Boccaccio, sostenne in quella celebre Università una disputa de quolibet, svolgendo, a senza metter tempo in mezzo, quattordici quistioni, proposte da diversi valent'uomini e di diverse materie, con loro argomenti pro e contra. D Dopo lunga vacanza dell'impero, Arrigo conte di Lussemburgo fu eletto imperatore, e coronato in Aquisgrana il 5 gennaio 1309. Scese in Italia dalle Alpi elvetiche nel settembre del 1310, e dopo aver percorso il Piemonte venne a Milano, ove, come re de' Romani, si cinse la corona di ferro il 6 gennaio 1311, prendendo il nome di Arrigo VII. Dante, levatosi pertanto a grandi speranze, abbandonò Parigi e corse in Italia: ed in Milano, inchinando l'Imperatore, gli protestò la sua devozione. Di là si trasferì di nuovo nel Casentino, probabilmente per eccitare i conti Guidi, già devoti quasi tutti all'impero, a prestare un valido aiuto ad Arrigo nelle imprese che meditava.

Ma Arrigo, stato più di un mese sotto Firenze, non si attentò di darle l'assalto; e veduto che a nulla poteva riuscire, il 1.o di novembre levò il campo, e per la via di Poggibonsi tornossene a Pisa. D'onde nell'estate dell'anno seguente partitosi per andare ad invadere il regno di Napoli, s'ammalò di febbre presso Siena, ma, proseguendo il cammino, ed il male aggravandosi, morì a Buonconvento il 24 agosto 1313.

Ove Dante s'aggirasse in quel tempo, non sappiamo: forse continuò a starsi presso i conti Guidi; forse allora, come altri credono, e non nel 1308 riparò presso i Raffaelli di Gubbio e dimorò nel monastero di Santa Croce di Fonte Avellana, quivi vicino. Come che sia, egli riprese un poco a sperare, quando l'amico suo Ugoccione della Faggiuola, gran guerriero, tutto dei Ghibellini, recata già Pisa, nei primi mesi del 1314, in sua signoria, occupò anche Lucca. Qui Dante si trasferì in quel torno e s'innamoro di quella Gentucca ch'egli ricorda nel XXIV del Purgatorio. Non è di questo luogo il narrare le gesta di Uguccione e la sua famosa vittoria di Montecatini del 29 agosto 1315, che prostrò le forze dei Guelfi. Direm solo che per Dante come per tutti i Ghibellini egli era allora il capitano (il cinquecento dieci e cinque), il messo di Dio che avrebbe ucciso la fuia, o sterminato la potenza guelfa. Intanto Zaccaria d' Orvieto, vicario del re Roberto in Firenze, condannò il 6 novembre 1310 per la terza volta Dante, probabilmente come amico e seguace di Uguccione. Venendo nelle forze del Comune, dovea perder la testa per mano del carnefice.

Ma per uno di quei subiti rivolgimenti, sì frequenti allora, Uguccione fu cacciato il 10 aprile 1316 non solo da Lucca, ma anche da Pisa. Dante lasciò allora la Toscana, ed è probabile che in sulla fine del 1316 o in sul principio del 1317 fosse ricevuto in corte dello Scaligero, per opera non d'altri che d'Uguccione. Egli scriveva di quel tempo la terza Cantica del divino poema. Ora, avendo già dedicato la prima ad esso Uguccione e la seconda a Moroello Malaspina, marchese di Villafranca, volle dedicare questa terza a Cane Scaligero.

Morto l'imperatore Arrigo e caduto in basso Uguccione, i Fiorentini, sentendosi più sicuri, rimossero ser Lando da Gubbio dall'officio di lor Podestà, e nell'ottobre del 1316 elessero in iscambio il conte Guido da Battifolle. Il 16 dicembre del medesimo anno fecero uno stanziamento in virtù del quale quasi tutti i banditi potevano ripatriare, sì veramente che pagassero una certa somma, e, stati alcun tempo in prigione, nella festa di San Giovanni andassero processionalmente con mitera in capo e coi ceri nelle mani ad offerire al santo; modo di grazia serbato ai malfattori ed esteso allora ai condannati politici. Dante rifiutò. Pare che soggiornasse poi in Verona quasi tre anni continui, sì perchè fece colà educare i suoi figli, specialmente il maggiore, per nome Pietro, sì perchè veggiamo che il 20 gennaio 1320,

nel tempietto di Sant'Elena, e in presenza di tutto il clero Veronese, sostenne, con le forme scolastiche di quell'età, una tesi: De Aqua et Terra.

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Al principio del 1320 passò a Ravenna, ove Guido Novello da Polenta il chiamava e dove (secondo la tradizione) compiè il Paradiso. Dicesi che nella primavera dell'anno seguente egli andasse a Venezia a trattare con quel governo di affari del Polentano. Al ritorno infermò e il 14 settembre 1321, d'anni 56 e 4 mesi morì 1. Gemma gli sopravvisse. Egli ebbe di lei sette figli, cinque maschi e due femmine. Pietro, il maggiore, fu laureato in legge a Bologna e fermò la sua dimora a Verona. Nel 1337 v'era giudice del Comune, e nel 1361 ebbe il titolo di Vicario del Collegio dei Mercanti. Morì nel 1364. Di Jacopo, il secondogenito, non sappiamo altro se non che fu uomo di lettere e poeta non ispregevole. Si trovava in Firenze nel 1332, e viveva tuttora nel 1352. Altri tre maschi, Gabriello, Alighiero ed Eliseo morirono in tenera età. Una delle femmine, di cui non si sa il nome, si maritò ad un Pantaleoni; l'altra, per nome Beatrice, si rese monaca nel monastero di Santo Stefano dell'Uliva in Ravenna. A lei, nel 1350, recò il Boccaccio dieci fiorini d'oro, dono della Repubblica fiorentina. Jacopo non ebbe discendenti e la famiglia di Pietro si estinse in una femmina per nome Ginevra, la quale nel 1549 si maritò al conte Antonio Serego di Verona.

Fu questo nostro poeta, dice il Boccaccio, di mediocre statura, e poichè alla matura età fu pervenuto, andò alquanto curvetto, ed era il suo andare grave e mansueto, di onestissimi panni sempre vestito in quello abito ch'era alla sua maturità convenevole; il suo volto fu lungo, e 'l naso aquilino, e gli occhi anzi grossi che piccioli, le mascelle grandi, e dal labbro di sotto era quel disopra avanzato; e il colore era bruno, i capelli e la barba spessi, neri e crespi, e sempre nella faccia maninconico e pensoso. Ne' costumi pubblici e domestichi mirabilmente fu composto e ordinato, e in tutti più che alcun altro cortese e civile. Ñel cibo e nel poto fu moderatissimo... Rade volte, se non domandato, parlava, e quelle pensatamente e con voce conveniente alla materia di che diceva; nonpertanto, laddove si richiedeva, eloquentissimo fu e facondo, e con ottima e pronta prolazione.

Sommamente si dilettò in suoni e in canti nella sua giovanezza, e a ciascuno che a que' tempi era ottimo cantatore o sonatore fu amico ed ebbe sua usanza; ed assai cose da questo diletto tirato compose, le quali di piacevole e maestrevole nota a questi cotali facea rivestire... Dilettossi similmente d'essere solitario e rimoto dalle genti, acciocchè le sue contemplazioni non gli fossero interrotte.

1 Secondo il Fraticelli, Dante non fu mai a Genova, onde è da rifiutare l'opinione che Dante nel Canto XXXIII dell'Inferno si vendicasse di Branca d'Oria per le male accoglienze fattegli in quella città. 2 Op. cit.

Fu uomo, nota il Bruni 1, molto pulito; di statura decente e di grato aspotto e pieno di gravità; parlatore rado e tardo, ma nelle sue risposte molto sottile.

Opere di Dante.

Dante scrisse la Vita Nuova, secondo il Fraticelli, nel 1292; il libro del Volgare Eloquio dal 1305 al 1307. Il primo Trattato e il terzo del Convito allo scorcio del 1313 o al principio del 1314; il secondo nel 1297; il quarto nel 1298. La Monarchia prima del 1310; forse verso il 1305 o il 1306.

Scrisse la Divina Commedia dal 1302 al 1321. L'Inferno fu compito alla fine del 1308, ma non pubblicato che al principio del 1309. Il Purgatorio fu compito, secondo il Troya, a cui aderisce il Fraticelli, nel settembre del 1315; il Paradiso fu finito, secondo il Fraticelli, prima della sua partenza per Venezia, che seguì al principio del 1321. Si può dire, egli aggiunge, che Dante terminò la sua vita appena ebbe terminato il poema.

La Vita Nuova è il primo monumento ch'egli innalzò a Beatrice. Vi raccolse tutte quante le visioni, le vicende, le beatitudini di quel purissimo amore, ed espostele in una prosa appassionata, le condensò poi in liriche immortali. Secondo il Witte, Vita Nuova non varrebbe tanto vita giovanile, quanto una vita che purificatasi a traverso il fuoco della passione si è fatta più sperta e più forte.

Compose, dice il Boccaccio 2, uno libretto in prosa latina, il quale egli intitolò De vulgari eloquentia, dove intendeva di dare dottrina a chi comprendere la volesse, del dire in rima; e comechè per lo detto libretto appariva lui avere in animo di dovere in ciò comporre quattro libri, o che più non ne facesse, dalla morte soprappreso, o che perduti sieno gli altri, più non appariscono che due solamente.

Nel primo libro, dice il Ferrazzi più partitamente, si fa dall'origine di ogni parlare umano e dalla divisione delle lingue. Vien poi ai dialetti dell'Europa romano-barbara, e li divide in tre, secondo le affermazioni dell'oc, oil e sì; fermasi sull'ultimo, ch'è quello degl'Italiani. Investiga l'indole e la condizione dei quattordici dialetti allora parlati nella nostra penisola e tutti li riprova, intendendo a formare un volgare illustre. Nel secondo libro non compiuto ei cerca per quali persone e di quali cose debbano i poeti scrivere nel volgare illustre e discorre specialmente della Canzone, il modo più nobile che per lui si cercava. Questo egregio autore, continua il Boccaccio, nella venuta di Arrigo VII imperatore, fece un libro in latina prosa, il cui titolo è Monarchia, il quale, seconão tre quistioni le quali in esso determina, in tre libri divise. Nel primo, logicamente disputando,

1 Op. cit. - 2 Op. cit.

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