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bandona a sè medesima, quasi cavallo senza freno, e tale una vendetta dal cielo impreca sul suo sangue che n'abbia spavento il successore, nè più voglia, come lui e il padre avevano fatto, distratti dall'Italia per cupidigia di allargarsi al di là delle Alpi, sofferire che il giardino dell'Imperio sia diserto. E qui ricorda al nuovo Cesare lo strazio disonesto di questa povera Italia, dove non è pace in nessun luogo, sì vi possono l'orgoglio, l'invidia, la sete dell'oro, le ire di parte, sì tutto è pieno di tiranni o inetti mestatori, e lo invita a venire a vedere la sua Roma, che lasciata vedova e sola lui chiama invano giorno e notte per nome, dolorosa che il suo Cesare, il suo sposo non l'accompagni come dovrebbe.

Così sperava, tornata la sede dell' impero a Roma, di veder risorgere sotto l'ombra delle sacre penne la gloria di quel buono e gentil sangue latino che un tempo aveva fatto felice il mondo. Era sempre il fantasima di quell'antico primato italico, al quale immemori che la storia non si rifà corsero dietro illusi gli spiriti più eletti d'Italia nostra da Boezio a Dante, da Dante a Cola di Rienzo e al Petrarca, dal Petrarca al Guidiccioni, al Machiavelli, dal Machiavelli al Chiabrera, al Testi, al Guidi, al Filicaja, e da questi giù giù finalmente, per tacere dei minori, fino all'Alfieri, al Botta, al Gioberti nei dì nostri. Il qual e sogno a giudizio di molti tornò à grave danno dell' Italia, perchè mentre si ostinava a richiamare in vita un ordine di cose che le mutate condizioni del mondo rendevano impossibile, non si curava di approfittare degli aiuti che aveva alla mano per ricomporsi in quella forma di stato che portavano i tempi. Così mentre nè gota nè longobarda si vuol rendere a nessun patto, ma romana si vuol rifare ad ogni costo, avvenné a lei come al cane della favola, che lasciò la carne vera che portava in bocca cascare nel fiume per vaghezza dell'immagine che lo specchio delle acque gli raffigurava; così mentre altre genti da meno di essa piegando alle condizioni nuove quali aveale fatte la conquista dei barbari si ordinavano alla meglio a nuovi stati, l'Italia per contrario nè potè ricuperare l'antico impero, nè a nuovo stato levarsi su quel fondamento qualunque che il presente le porgeva.

Qual valore, a dir vero, si possa dare a sì fatto rimprovero io non vedo, parendo a me che male o troppo arditamente almeno si argomenti degli effetti possibili di un avvenimento che non ebbe luogo da quello che realmente avvenne in circostanze non uguali forse che in apparenza. E tale appunto è per mio credere il caso nostro, non si trovando altro paese che potesse vantare al par dell' Italia nè una civiltà tanto avanzata nè istituzioni e consuetudini

tanto antiche nè tendenze sì diverse da quelle dei barbari, cui dovesse quindi riescire tanto malagevole spogliarsi a dir così della propria persona per vestire l'altrui trasformando natura. Ma quando pure avesse un tal rimprovero alcun fondamento di vero, chè non è qui luogo da disputarne, a Dante in particolare meno che a nessun altro si conviene. Era egli nel fatto così lontano dal voler rigettare quell'aiuto qualunque che le condizioni presenti gli potevano recare, che volendo pur fare un'Italia unita e forte, e non trovando in essa alcun principe natio che bastasse a tanto, non isdegnava nè la spada nè il senno dello straniero, purchè adoperati a prò dell'Italia e nel nome di essa. Arroge, e questo non si vuole mai dimenticare a discolpa come di Dante così dei ghibellini in generale, checchè siasi voluto far credere da scrittori o male informati o preoccupati da studio di parte, chiaro è per le storie che il gentil costume, che la tolleranza religiosa, che la libertà del pensare, fondamenti al civile progresso, tu li vedevi nel campo dei partigiani dell' impero anzichè in quello dei guelfi, nè certo ardevano i roghi dell'inquisizione romana allo schermo delle aquile imperiali. Aggiungi ancora: se poteva l'Allighieri sperare che un imperatore, il quale nell'interesse proprio e dell'impero si pigliasse a cuore le cose nostre, mettendosi a sì nobile e ardua impresa con adeguate forze dovesse unire tutta Italia insieme, non foss' altro sotto il suo primato morale, con che sarebbesi dato il primo passo e il più difficile alla piena e intera unità politica, e il resto poi sarebbe di natural conseguenza venuto col tempo, per l'impeto stesso e il peso a così dire di quel fatto compiuto, poteva egli mai sperare altrettanto dai guelfi, dal papa che n'era il capo? No certamente, se pure non volea sconoscere le condizioni ineluttabili del papa e del partito, chiarò essendo che quanto più questo si allargava in Italia, tanto più dovea l'Italia discorde e divisa dilungarsi dall' unità. E di fatto chi non vede come, mentre dall'una parte non era nei papi forza sufficiente a ridurre Italia tutta quanta in loro balia, richiedesse dall' altra l'interesse loro che a tanto nessuno stato in Italia avessé a riuscire, nè sì grandeggiarvi da tenerli in soggezione? Il perchè doveano essi aver care le discordie di quei guelfi stessi che proteggevano, nè troppo darsi briga di cessare le guerre fratricide onde si laceravano le eittà rivali tuttochè a loro devote. I

Essendo adunque l'impero nel concetto di Dante la concordia e l'unione, il guelfismo per contrario la divisione e la discordia, quello l'ordine e la pace, questo la guerra perpetua e l'anarchia, era naturale che unico riparo ai mali che da cinque secoli travagliavano l'Italia gli dovesse apparire il sovrapporsi

della imperiale autorità a tutti gli stati d'Italia. Che se questo monarcato universale è nei decreti della Provvidenza, non ci può essere, giusta la sua dottrina, colpa più grave al mondo dell'attentarsi ad abbattere quello che Dio medesimo ha disposto per la felicità del mondo, perocchè nell' imperatore della terra si viene ad assalire l'Imperatore del cielo, ad immagine del quale è costituito il Cesare di Dante. Qual meraviglia pertanto se presso a Giuda, il traditore dell' Uomo-Dio, colloca il poeta inesorabile giù nell' ultimo fondo dell' Inferno come traditori dell'umana generazione e nimici di Dio, quei grandi e forti petti di Bruto e Cassio, gli uccisori di Giulio Cesare, e per contrario di quell' astuto e codardo ipocrita che fu Augusto ti fa quasi un Dio? Non è propriamente alle persone storiche di quel nome che intende il poeta di dar biasimo o lode, sì bene al principio che in quelle s'incarna. Come tanti altri pur valenti e amatori della patria caldissimi, anche l'Allighieri troppo s' ingannava ripromettendosi vero e durevole rimedio ai mali d'Italia da chi dell'Italia fu e sarà sempre natural nimico, insino a che non basti a sè stessa; ma dappoichè di que' tempi, rimanendo fra noi poco più che il nome di codesti imperatori di Germania, non era per anco venuta una dura, secolare esperienza ad assennarlo della cupa tirannia tedesca, quale che si fosse quell' aiuto nonsoccorreva allora pel momento in tanta disperazione di cose altro miglior partito. E ridonda pur sempre a gloria di Dante l'avere di mezzo a tanta confusione e pervertimento di idee, in così prodigiosa mobilità di stati avvisato a quel solo modo che paresse attuabile di richiamare l'Italia a quella unità d' intenti che suol essere fondamento alla effettuale unità delle nazioni.

Due sommi italiani adoprarono soprattutti con pari zelo, ma per diverse vie a preparare questa sì necessaria unione delle genti italiche, di guisa che mercè loro divenne quell' idea come la parola d'ordine alle successive generazioni, il perno delle menti e l'ultimo segno delle speranze italiane, Dante e Machiavelli. Ambedue cercarono al principato d' un solo la redenzione d'Italia; se non che l'uno filosofo speculativo e poeta modellò questo futuro liberatore d'Italia sull'ideale dell' imperatore perfetto, quale in astratto doveva concepirsi; uomo l'altro delle circostanze, solito andare dietro alla verità effettuale della cosa e non all'immaginazione di essa, e ridersi di coloro che sognano repubbliche e principati che non si sono mai visti nè conosciuti essere in vero, lo cavò senz'altro d'in fra i principi d'Italia allora viventi, quello eleggendo che pei tempi stimò più acconcio a tanta impresa. Per la qual cosa l'uno movendo dal principio del bene assoluto voleva innanzi

tutto per conseguire l'unità, rendere tali gl' Italiani quali avrebbero dovuto essere per meritarla, e a questo intese in ogni suo scritto, ma principalmente nella triplice cantica, che nella sua mente doveva essere una preparazione morale all' italico risorgimento; l'altro per contrario partendo, come uomo pratico e positivo, dalla realtà delle cose presenti pigliava gli uomini quali erano, ma i vizi stessi e le tristizie loro intendeva usare a stromento dei suoi fini, e però, dappoichè in così universale corruttela, quando l'ipocrisia, la frode, il tradimento erano le armi dei più, mal si poteva acquistare possanza colle virtù dei Titi e degli Antonini, e bisognava pur vincere e schiacciare ad ogni modo i contrastanti all'unità, non si peritava d'invocare al

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uopo il braccio e la mente di un secondo Valentino, pur di fare l'Italia! E giovarono ambedue al grande intento più d'assai che non pensino coloro che il valore dei concetti umani sogliono misurare dalle immediate conseguenze; quegli l'idea dell' italica unità, rimasta fino allora solitaria e incompresa. rese pel primo comune e famigliare col fascino della poesia, e primo l'incominciò identificando nel proprio nome l'Italia e le sue glorie; questi la dimostrò attuabile tuttavia in sì lagrimevole abbassamento d'uomini e di cose, e insegnò come dai tempi e dalle circostanze si hanno a derivare i mezzi e gli accorgimenti per condurla ad effetto. Se quegli santificolla nella purezza dell' ideale proposto che fosse quasi scala a sempre più alte aspirazioni, e come arra di progresso indefinito, questi la sicurò dalle vane utopie e dagli sforzi impotenti dei visionari, dandole a guida l'esperienza, a stromento la natura umana, non la ideale, ma la vera ed effettiva, quale s'incontra tutto dì nel mondo. Tuttavia oso asserire che l'opera di Dante, se badiamo alla essenza delle cose, di tanto è superiore a quella del segretario fiorentino, di quanto suol essere l'atto della mente all'opera del senso; perocchè se il Principe ti dà il concetto pratico, al quale venendo all'atto per mezzo dell'uomo guasto e corrotto, forza è si appigli alcun che della impura materia che gli è strumento, nella Divina Commedia, nella Monarchia, nel Convito hai l'idea, che, vergine di ogni labe terrena, si spazia sul mondo liberissima nelle pure regioni del giusto assoluto e del vero che non muta.

Non è surto ancora chi più di Dante si meritasse in perpetuo la riconoscenza della patria, nè uomo ci fu mai sì potente, si universale, che tanto profondamente con quello della patria confondesse il proprio destino. Come Dante pertanto è dell'Italia, che diede all'uomo, al cittadino, al poeta i suoi nitidi soli, il suo cielo, le sue acque, e, che più importa, le sue gloriose tradizioni, i suoi dolori; l'Italia è di Dante

che a lei diede i suoi grandi pensamenti e le generose speranze, e tutto un avvenire di gloria nel suo poema immortale; l'Italia è di Dante, che per lunghi secoli allo schermo del suo nome l'assicurò dall'insulto dello straniero, che non osava dichiara re impotente alle grandi cose la patria di Dante.

Prof. A. ZONCADA.

DANTE ANTIPAPISTA

(Cont., V. N.o 31, pag. 249).

Conviene perciò dimostrare come il nostro massimo Allighieri sapesse uniformarsi a questa impellente ragione de' suoi tempi, come anzi la dominasse e la correggesse, dacchè egli era pure trascinato dall'onda tempestosa che dall' Oriente era mossa a rovesciare la vecchia chiesa d'Occidente.

Dante istesso ci mette sulla via d'intenderlo, e ci dice di molte belle cose per invitarci a riuscirvi. E primamente nella sua lettera a Can Grande della Scala ci ammonisce tre essere i sensi della Divina Commedia il letterale, l'allegorico e l'anfibologico. Non veggo perchè dovesse usare dell'anfibologia, quando egli avesse voluto poetare sul catechismo cattolico e sulle gloriose imprese de' paladini di santa Chiesa. Ma egli scriveva in campo contrario e faceva d'uopo a lui di giuocare di scaltrezza più che di trattar armi contro i canoni del Vaticano.

Nel Convito abbiamo un'altra confessione più luminosa dell'artifizio da lui usato nello scrivere il poema.

Egli era molto facile, esso dice, il parlare, siccome abbiamo fatto sinora, d'amore e della nostra donna: ma io voglio lasciare questa maniera di scrivere, e vestire la mia donna differentemente. Mi duole molto far questo, ma vi sono costretto, essendo una tale via la sola che allontani i pericoli. Ella apparirà abbigliata com'è la sua rivale, gli amanti di cui, sono da noi chiamati morti (vocabolo con che designavansi i cattolici). Io stesso comparirò quale un morto, sforzandomi di parere di lei amante. Ma non per questa simulazione il mio cuore sarà cangiato, perchè desso apparterrà sempre alla gloriosa e perfetta figlia dell' imperatore dell' universo, cui Pittagora nomò filosofia, e il volgo chiama Beatrice, non sapendo che nome darle ».

In quest'opera e nella Vita Nuova, benchè scritte con istile pittagorico secondo i dettati del trivium e quadrivium di quei tempi, ed ordite esse pure per conseguente con rete anfibologica al pari della Commedia, Dante ha fatto il commento di sè stesso, sicchè ci reca maraviglia e dolore che per cinque secoli siasi letto in Italia il poema dell'Allighieri e

tuttora si faccia disputa del suo intendimento, pel poco conto in che si vollero tenere le dichiarazion da lui stesso scritte, a schiarimento degl' ingiuriosi dubbi de' suoi contemporanei e correligionari.

Nel secolo di Dante, per gli eventi luttuosi a cui abbiamo accennato, era fatta usanza presso tutti li scrittori di sua parte di valersi d'un'arte che fu detta ora platonica, ora gaia, ora cortigiana, per la quale avevano costrutto un linguaggio convenzionale, alla guisa stessa che praticarono nell'antichità gl'iniziati ai misteri eleusini, i Greci, i Persiani, gli Egiziani, e che dalli stessi maggiori de' ghibellini era stato felicemente adoprato. Vennero in fama per quest'arte di scrivere, fra noi primissimi, i Siciliani, per l'influenza dell' imperator Federigo II e del suo dottissimo ministro Pier delle Vigne, i quali eccelsero fra i cultori della Scienza gaia. Guido Guinicelli da Bologna, contemporaneo ed amico di Dante, dettò poesie eleganti, nella stessa maniera, siccome facevano i Provenzali ed i trovatori nel cantare della strage de' Templari. I due elementi pertanto, il politico religioso ed il letterario, che erano concorsi alla composizione delle poetiche leggende di questi, offrirono il soggetto e la forma alla grande creazione subiettiva ed obiettiva della Divina Commedia ; di che non potrà muoversene assennatamente dubbio, essendo palese l'idea e l'indole della letteratura nazionale, della quale Dante divenne maestro e duca, costando apertamente così dell' impulso gagliardo che elettrizzò il suo genio onnipotente, come dello scopo al quale aveva tutto dedicato l'animo suo ghibellino e la sua vita intera.

La scienza e la vita nuova introdotta dall' Oriente, coltivata e nudrita per opera di filosofi, sacerdoti ed operai moltissimi, battezzata e ringiovanita dalle guerre dell' inquisizione papale, nel secolo XIII avea succeduto alla scienza ed alla vita de'conventi entro cui li interpetri cattolici usano racchiudere il ghibellino Dante in quel modo che la lingua provenzale felicissima transizione dell' italiana sottentrava alla latina. Per tal maniera l'orientalismo suppiantava man mano il cattolicismo, l'imperialismo invadeva il papismo, i ghibellini sottentravano ai guelfi, Dante rimpiazzava S. Tommaso d'Aquino.

Eppure se tiensi al senso letterale diremmo il sacro volume appartenere più alla scuola di questi che di quello, il quale aveva uditi gli Invidiosi Veri del Sigero nella via degli strani. Sennonchè i frati domenicani non si illusero pel fuco del senso letterale intorno il segreto dell'ortodossia dantesca, ed il cardinale De Paget, ossesso papale delegato in Ravenna minacciò violare la santità del sepolcro del poeta, e fare un auto-da-fè delle sue ossa șacre. La

storia ci mostra bene come la religione del fiero ghi- | principio del suo mistico viaggio, affidandosi al divino

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bellino fosse apprezzata da'guelfi del suo tempo, e se il credo della inquisizione si accordasse con il credo della Commedia da lei anatematizzato avanti dopo il transito del suo autore. Una scaltra prudenza sospese però l'incivile ingiuria, e mantenne una solenne menzogna, fatta poi tradizionale, perchè dalla verità svelata non ne rindondasse maggior detrimento e più scandalosa vittoria. Quindi Dante rimane pei più guelfo, ed il suo poema ottiene gli onori dovuti alle decretali di Gregorio XIII. I pochi cenni però finora esposti magri contorni di voluminosa storia. parlante il contrario - varranno, io lo spero, a risvegliare fra gl' Italiani il sospetto, che Dante ha composto due poemi in uno - amfibologico l'uno, letterale l'altro ossia il razionale ed il cattolico secondo che la scienza e la letteratura del suo secolo gl' imponevano. Questi unicamente essendo gli elementi della ideologia dantesca, non può ascriversi la sua Commedia che ai componimenti di natura didascalica, nell' intento d'indirizzare i suoi contemporanei alla riforma politica e religiosa professata dai Templari. Sarebbe dunque doloroso risultato quello che gl' Italiani si ostinassero dedurre dagli studi e dalle opere dei loro connazionali soltanto, i quali nella maggior parte opinarono essere il divino volume poema ed epico. Di cattolico, noi lo ammettemmo di già, non vi è nella Commedia che la forma letterale, e di epico stenterebbe a rilevarsi qualche episodio di ciclo leggendario siccome a cagion d'esempio sono quelli della Pia, della Francesca da Rimini e del conte Ugolino, i quali concorsero ad appoggiare col loro carattere l'ontologia didascalica del poema. L'unità poi risulta dalla logica e dall'euritmia di questa meravigliosa creazione, poichè chiudonsi le cantiche armoniose col narrare le bellezze, le glorie ed il trionfo del Sole che aveva confortato il poeta nel

Fratelli Nistri, Tipografi Librai in Pisa.

Commento di FRANCESCO da BUTI sopra la Divina Commedia di DANTE ALLIGHIERI (letto nella Università di Pisa dal 1365 al 1440, Testo di Lingua inedito, citato dagli Accademici della Crusca nel loro Vocabolario) pubblicato per cura di Crescentino Giannini, Pisa 1858-1862. Tre gr. Tomi in 8.° con Ritratto di Dante dip. da Giotto, e del Buti.. it. L. 45, 00 - Lo stesso, Edizione da Biblioteche, in 8.0 massimo di carta imperiale con margini allargati (ediz. di 75 esempl.). » 75, 00 Ediz. citata nella ristampa (che è in corso) del Vocabolario della Crusca. Si spedirà franca per posta nel Regno a chi ne rimetterà agli Editori in Pisa l'importo con Vaglia Postale.

TIP. GALILEIANA DI M. CELLINI E C.

idolo orientale - che mena diritto altrui per ogni cal

le. Quanto un tal astro offendesse gli occhi dei padri del sant'uffizio lo dicano gl' inulti mani di frate Campanella che scrisse il bel volume sulla Città del Sole.

Dopo il professore Rossetti, i tedeschi principalmente divennero famigliari coll'idea dantesca che ve nimmo esponendo. Nè è da maravigliarsene, essendo fra loro conosciute ed apprezzate le dottrine de' Templari meglio che non si faccia altrove. Il profondo filosofo Schelling osservava che Dante basò il poema sopra le teorie ammesse dalla scienza dell'epoca sua, le quali quivi sono introdotte siccome fondamento e sacra mitologia delle sue sublimi creazioni artistiche.

Pochi anni or sono, in Stettino, il dottissimo Herrn Grieben pubblicava un opuscolo per dimostrare che non solo filosofia, ma religione e politica sono i cardini dell'edificio dantesco, che, egli dice, dovrebbe considerarsi come il più grande monumento scientifico e storico del secolo XIII. E tale è l'opinione del dott. Hannegeisser, traduttore della Commedia, del professore Kriyar, traduttore del Petrarca, e della maggior parte dei membri della Società Italiana in Berlino, alla quale ebbi l'onore di dar lettura di uno dei miei studi sulla Divina Commedia.

Valganmi quei grandi filosofi e questi illustri dottori a proteggere dalla taccia di temeraria e d'infedele l'idea storica che io scorgo nel sacro poema dantesco sotto il velame dei suoi versi strani, ed il giudizio della giovane Italia verrrà competente e solenue a corroborarla fermamente, o ad inappellabilmente condannarla e proscriverla dal campo letterario nazionale.

Prof. E. TEODORANI.

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Le associazioni per l'Italia si vone in Firenze alla Direzione

del Giornale, alla Tipografia Galileiana di M. Cellini e C., e presso i principali Librai.

Incaricati generali per le Associazioni:

Per la Spagna e Portogallo, Sig. Verdaguer, libraio a Barcellona, Rumba del Centro;

Per il resto d' Europa: Sig. Ermanno Loëscher, libraio a Torino, Via Carlo Alberto, N.° 5.

le feste del Centenario, e vi è detto che la medeསམམ་ ལ་སྨོམ་ཁt...dalla sima, dopo una II Progr sua sotto-Commissione, credè di doverlo rifiutare, considerando che il modo di festeggiar una tanta solennità deve essere semplice, dignitoso e a breve durata. Siccome una simile deliberazione, ce resulterebbe essere stata presa dalla Commissio e generale, non è conforme a quanto fu veramente ritenuto, considerato ed anche deliberato intorno & Programma, così, nella mia qualità di segretario ella Commissione generale per le feste, sento il dvere di rettificare quanto è stato detto enunciando seguenti fatti:

1.o Che la Commissione genera ricevè nella sua Adunanza del 24 corrente comucazione del Programma che essa aveva dato l'iarico di formare ad una sotto-Commissione, nomina nel suo seno, indicandole come base per la duta delle feste il termine di otto a dieci giorni ;

2.o Che la predetta sotto-Commione, presieduta dal signor marchese Giuseppe Gami, formando il suddetto Programma dovè anzi po sommo studio perchè anche in un prolungato co di giorni non mancassero modi di festeggiare e diorare il divino Poeta, con quante sono le espressi della civiltà moderna, della quale egli fu il fotore;

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