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Questo si vuole e questo già si cerca,
E tosto verrà fatto a chi ciò pensa

Là, dove Cristo tutto di si merca.

Par. XVII.

Cercò Dante di ritornare in patria impetrando soccorso al gran Lombardo Bartolomeo della Scala, che fu largo di aiuti alla lega bianca gl.ibellina; ma spezzalesi le armi dei fuorusciti alla battaglia del Mugello, egli si fece a sconsigliare i suoi compagni d'esilio da ruinose e temerarie imprese, sicchè dopo lo stolto tentativo della Lastra, lui accusarono dell'esito infausto, (1) perchè s' era opposto già prima all'impresa stessa, quando i Bianchi credevano avere più favorevole occasione di tentare colle armi il ritorno in Patria. Ond' egli dopo l'esiglio avuto de' suoi nemici soggiacque pur anco alle calunnie di parte sua, di quella compagnia selvaggia e scempia.... Che tutta ingrata luta pazza ed empia, s'ebbe da ultimo l'abbandono del più grande e incontaminato esule italiano. Dico incontaminato, poichè se egli incuorò Arrigo ad assalire Firenze la quale inclinava a Roberto di Napoli a cui poscia si diede, piuttosto che accogliere il Lussemburgo, non furono che parole, come osserva rettamente l'Aretino, « ma poi il tenne tanto la reverenza della patria, che venendo l'imperatore contro a Firenze e ponendosi a campo contro a porta, non vi volle essere contattochè confortatore, fosse stato di sua venuta. » Anzi ci farà meraviglia il vedere come egli spieghi tanta moderazione da non accomunarsi a coloro che armata mano volevano penetrare in Firenze, poichè si ritrae dal Compagni che il ten

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tarsi dai fuorusciti di ritornare alle proprie case era tenuto come l'esercizio di un diritto (1). Durante l'esilio lo troviamo ospitato dai ghibellini Uguccione della Faggiuola, Malaspina da Lunigiana, Can Grande della Scala, e dai guelfi Pagano della Torre e Guido Novello da Polenta, e riceversi più cortese ospitalità da questi che da quelli. Dagli atti dunque della sua vita per noi rapidamente accennati, si fa luogo a dubitar fortemente se si possa con sicurezza affermare essere egli stato ghibellino o guelfo, o non piuttosto aversi fatta parte per sè stesso.

Passiamo ora all'esame delle doitrine da lui professate, traendole anzitutto dal suo trattato politico di cui abbiamo già più volte fatto parola.

Dante, considerando le aspirazioni non appagate mai di un quieto e libero vivere civile, pensò che solo riducendosi a forte unità la penisola tutta si potessero comporre le interne dissensioni di questo gran popolo, che egli considerava come una sola famiglia, e dare con ciò solido fondamento alle libertà municipali, antica e veneranda reliquie delle glorie italiane. Ogni altro mezzo era vano; egli stesso lo aveva esperimentato. Se un uomo potente che in sè riunisse le qualità di valente capitano e di saggio principe avesse dato mano all'impresa, quegli sarebbe il Veltro, salute d'Italia, quegli il nuovo Messia. Federico II,

(1) C. Balbo riportate le parole altamente sdegnose di Dino Compagni, colle quali narra la fine miseranda di Donato Alberti, esule bianco, caduto nella battaglia di Pulicciano in mano de' Neri, da cui fu ucciso per ordine del Podestà, nola come il tentativo de' fuorusciti a rientrare armata mano in patria, fosse tenuto allora come guerra eonsueta e giusta.

che fu d'onor si degno (Inf. XIII) aveva già in suo' ánimo vagheggiato l'ambizioso disegno, e già moveva ad attuarlo, meno per amore d'unità nazionale, di cui non comprendeva forse il concetto, che per cupidigia di più esteso dominio; ma se anche per le vie dell' assolutismo quell' idea si fosse tradotta in atto, se il tentativo fosse stato coronato da felice successo, chi sa dire a quale grandezza non avrebbe poggiato l'Italia, ora già da cinque secoli, costituita in nazione? Le sofferenze, i dolori, i sacrifizii di si lungo volger di tempo, non eguagliarono o superarono forse di gran lunga, la violenta effettuazione di quella sublime idea? Ma i pontefici la resero impossibile, allora, come oggi, nemici alla secolarizzazione del potere, e a quello che essi riputarono sempre un sogno l' unità d'Italia. E forse fu provvidenziale che essa prima di costituirsi in una sola famiglia, passasse per tante varietà di dolori, rendendosi così privileggiata fra tutte le altre nazioni tanto per le sue glorie che per le sue sventure:

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Ma Dante dopo avere più specialmente nel Sacro Poema affermato l'unità della patria, spinse l'arditissimo ingegno ad estendere il principio dell' unità a tutta la umana razza, ed abbracciare in una sola famiglia l'umanità, poichè, pensava egli, come tutti gli uomini sono figli d'uno stesso Padre, e tutti fra loro fratelli per la rigenerazione di Cristo, così tutti dovrebbero ad un unico reggimento essere soggetti e così nella unità dello stato umanitario, svilupparsi armonicamente tutte le potenze individuali e diffondere egualmente su tutte le regioni il benessere e la prosperità universale. Se tutte le cose sono ordinate ad un fine, e l'umana schiatta è indirizzata ad uno nobilissimo ed altissimo, uno pure dev' essere che re

goli il raggiungimento di detto fine dell' umanità, c questi dev'essere l'imperatore Constat quod humanum genus ordinatur ad unum Ergo unum oportet esse regulans sive regens, et hoc Monarcha sive Imperator esse debet (De Mon. 1. 1. § VII.) La giustizia potrà solo efficacemente e lealmente osservarsi quando sia appagata ogni ambizione, soddisfatto ogni desiderio, sì che nulla più essendovi ad agognare, il compimento pieno d'ogni umana aspirazione renderà il principe necessariamente giusto. E Aristotile aveva già detto: Entia nolunt male disponi; malum autem pluralitas principatuum: unus ergo princeps (1. I. XII.) Allora sarebbe bello ripetere col cantore d'Enea, venerato maestro al Poeta nostro: Iam redit et Virgo redeunt Saturnia regna ch'egli volgarizzava

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Nè tal principe dovrebbe essere all' infuori d'un magistrato supremo in una republica di stati indipendenti, governando con leggi fondamentali che obligassero lui pure insieme ai popoli tutti soggetti, non essendo egli che il ministro di tutti: - Et maxime monarcha qui minister omnium habendus est (1. I. §. XXIV); perché i cittadini non sono pel re, ma il re per le genti. Non enim cives propter regem, sed e converso consules propter cives, rex propter gentem (1. I. S. XIV.); il che risponde al concetto di S. Tommaso, laddove distinguendo re da tiranno, dice: Regnum non est propter regem, sed rex propter gentem, quia ad hoc Deus providit eis, ut regnum regunt et gubernent, et unumquemque in suo jure

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conservent, et hic est finis regiminis regiminis, quod si aliud faciunt in seipsos commodum retorquendo, non sunt reges, sed tyranni (De reg. princ. III. 14) Nè tutti i popoli dovrebbersi reggere colle stesse leggi (1) introducendo ovunque le stesse consuetudini, le medesime istituzioni, ma ciascuno si avrebbe a governare secondo lo stato progrediente in che trovasi la speciale sua civiltà, chè aliter regulari oportet Scythas aliter Garamanthes. (1. I. §. XVI.) Richiedeva anzi l'Alighieri la indipendenza piena dei municipii, lasciando ad essi la facoltà di svolgere le proprie istituzioni a seconda del loro interesse: il principe limitasse la sua autorità a rimuovere gli ostacoli al progresso, a frenare gli abusi, a consigliare provvedimenti; ond' è che egli scorgendo nel Muni

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e quella dello

(1) Dante dice la legge: regula directiva vitæ (Mon. 1. 1. § XVI) e avendo definito il diritto « realis et personalis proportio quae servala serval societatem, corrupta corrumpit » egli assorge a un ordine di idee più elevato e più vero di quello d'altri più moderni scrittori che ad imitazione degli scolastici fanno scaturire il diritto dalla legge e dalla volontà di un superiore. La definizione di Kant: il complesso delle condizioni, sotto cui la libertà di ciascuno può coesistere colla libertà di tutti, giusta un principio generale di libertà Stahl -- « l'ordine delle relazioni che formano l'esistenza comune degli in. dividui » non sono che quella stessa dell' Alighieri espressa con parole diverAltrove, dichiarando più estesamente il concetto del Diritto, dice: Liquet quod jus cum sit bonum, per prius in mente Dei est: et cum omnis quod in mente est sit Deus. . . . el Deus maxime seipsum velit, sequitur, quod jus a Deo, prout in eo est, sit volitum. Et cum voluntates el volitum in Dro sit idem, sequitur ulterius quod divina voluntas sit ipsum jus (T. II. §. II.); il che risponde al concetto di Leibnitz: Deum esse omnis naturalis jure auctorem verissimum est. Iuris principia quaerenda sunt non tantum in voluntate 'divina sed et in intellectu, nec tantum in potentia Dei sed et in sapientia.

se. --

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